Scuole chiuse in Campania: il fallimento della politica
Che sarebbe durata poco era nell’aria da giorni: Vincenzo De Luca, forse anticipando uno dei prossimi scontri di governo, ha chiuso le scuole con effetto immediato. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì, dove la nuova, prevedibile, impennata dei casi di contagio in Campania è arrivata a quota 1200, scatenando reazioni e polemiche sull’intero territorio nazionale e nelle famiglie.
Al momento, l’ordinanza n.79 firmata dal Presidente della Regione prevede la sospensione del suono della campanella fino al prossimo 30 ottobre, ma in molti concordano già che il periodo possa essere prolungato di qui a breve. Nel frattempo, alla presenza in aula si sostituirà la didattica a distanza, nonostante il Ministero – che oggi tuona contro De Luca – avesse dato rassicurazioni diverse, escludendo in modo categorico lo strumento digitale del quale, anche in Lombardia, si è tornato a parlare proprio in queste ore.
In Campania, sono trascorsi appena pochi giorni dalla riapertura degli istituti di ogni ordine e grado. Eppure, il lungo periodo di pausa forzata non è bastato a garantire maggiore longevità a un diritto che appare sempre più calpestato, confermando quanta scarsa attenzione la politica, nazionale e locale, riservi all’istruzione. E, così, da ultimo della classe quando si è trattato di riaprire, De Luca è diventato il primo ad arrendersi alla chiusura, ammettendo la sconfitta dinanzi alla propria e alla più generale incapacità amministrativa, tra l’altro, relegando gli studenti campani a un gap formativo che rischiano di portarsi dietro a lungo.
A sostegno della sua disposizione, il governatore ha ufficializzato i seguenti dati:
ASL Napoli 1 – contagiati 120 tra alunni e docenti
ASL Napoli 2 – contagiati 110 tra alunni e docenti
ASL Napoli 3 – contagiati 200 alunni e 50 docenti, con circa 70 casi connessi
ASL Caserta – contagiati 61 tra alunni e docenti
Numeri che il Ministro Azzolina, balzata sulla sedia alla disposizione di De Luca, ha ritenuto di dover sminuire affermando che «solo lo 0.075% degli studenti è risultato positivo al COVID e di sicuro il virus non è stato contratto in classe. La media nazionale degli alunni che hanno contratto il coronavirus è dello 0.080%, la Campania è al di sotto anche della media nazionale». Ma le cifre, annunciate da entrambi più per prevalere che per spiegare, vanno prese con le pinze.
È innegabile che le scuole italiane siano gli edifici pubblici con la più alta concentrazione di individui per metro quadrato. Il rischio di contagio, dunque, è elevatissimo: la dichiarazione che i nostri istituti siano il luogo più sicuro è evidentemente una bufala. Non bastano i banchi a rotelle, aver ridotto per legge la distanza minima per evitare il contagio. Già, perché se in origine la distanza doveva essere di un metro e mezzo tra i banchi, quando si sono resi conto che non sarebbero riusciti a far entrare più di dodici alunni in una classe, hanno emanato una nuova circolare che prevedesse lo spazio di un metro. È come quando si alza la percentuale di sostanze tossiche nell’acqua per dichiararla potabile! Ora, in quasi tutte le scuole, in ogni aula ci sono almeno 21 alunni. Sempre meno dei 35 delle classi pollaio degli anni scorsi, ma pur sempre una concentrazione alta di persone nello stesso ambiente rischiosa per il COVID.
Per onestà, dobbiamo dire che la scuola (così come la sanità) è stata lentamente depauperata. Per risparmiare si è ridotto progressivamente il numero dei docenti e del personale scolastico, innalzando sensibilmente il numero di alunni per classe. E se questo poteva malamente funzionare in tempi normali, non è più possibile in emergenza sanitaria.
Il trucco di dichiarare le percentuali (chi ha studiato statistica sa che possono essere utilizzate anche per coprire inefficienze), di affermare che gli alunni non hanno contratto il virus a scuola, come se ci fosse un modo per stabilire dove lo si contrae e dare in pasto questo all’opinione pubblica, che ci crede anche, è un giochetto che serve a non perdere credibilità politica. È un tentativo, estremo, di salvare se stessi e il proprio fallimentare operato fatto di risorse economiche spese inutilmente. Non vogliamo rientrare nel merito dei banchi a rotelle, ma quei soldi sarebbero potuti servire ad aggiustare qualche istituto. Le nostre scuole, specialmente quelle di periferia, versano in condizioni pietose tutt’oggi.
La sensazione è che, al contrario delle dichiarazioni ufficiali, non si voglia assumere personale, docente e ATA, perché, superata la crisi sanitaria, lo Stato non potrebbe liberarsene, riportando l’istituzione scolastica a com’era prima della spending review, prima dei tagli incontrollati per favorire il bilancio e penalizzare l’istruzione. E, invece, tenere aperta la scuola significa, in questi tempi d’emergenza, assumere più personale per utilizzare a tempo pieno (doppi e tripli turni) gli edifici a disposizione, così da avere il numero giusto di alunni per classe. Diversamente, e in modo obiettivo, la scuola non può restare aperta.
Proprio su queste pagine, abbiamo ribadito quanta poca prevenzione la Regione Campania nello specifico, ma anche molte altre ASL italiane, stiano dedicando al comparto scuola e, soprattutto, ai docenti che, a discapito del protocollo nazionale, spesso in caso di positività di un alunno non sono ritenuti contatti stretti e, dunque, forniti di assistenza. Le storie di chi si rivolge a laboratori privati per un tampone sono numerosissime, altrettante quelle di chi subisce pressioni affinché la colpa, dinanzi a un possibile contagio, sembri quasi del contagiato stesso, magari un insegnante incosciente, incapace di rispettare le regole. In assenza di uno screening universale o, comunque, di un più efficace campionamento di massa, appare dunque difficile stabilire con certezza quanto effettivamente le scuole siano vittime o catalizzatori di viralità.
Ciò che è innegabile, invece, è che anche a livello nazionale, al contrario di quanto sbandierato appena pochi giorni fa, i contagi in aula stanno prevedibilmente e rapidamente aumentando, in perfetta sincronia con quanto sta avendo luogo al di là delle mura scolastiche. A tal proposito, forti voci di corridoio non smentiscono che, tra le prossime misure adottate dal Presidente del Consiglio, possa esserci proprio la sospensione della didattica in presenza. Un motivo, forte, per chiedere a Lucia Azzolina – e, in realtà, all’intero esecutivo – di fare un passo indietro.
Che la pandemia non fosse nei programmi di governo è ovvio. Nessuno poteva immaginare l’imminenza di una tale catastrofe mondiale. Ciononostante, a oggi, la fase emergenziale sembra non aver ancora lasciato spazio alla conseguente e preventivata fase straordinaria. Così come straordinario avrebbe dovuto essere l’impegno di tutte le parti in causa, dalle istituzioni centrali a quelle locali, affinché a quasi otto mesi dal lockdown di marzo fossimo in qualche modo preparati a fronteggiare le sfide cui siamo costretti. Affinché la prima risposta – quella che il Premier ha definito la più semplice – non fosse la chiusura delle scuole, adesso in Campania, ma nel futuro più prossimo probabilmente nel resto d’Italia. La seconda ondata era preannunciata da tempo, ma niente, assolutamente niente, è stato fatto per arginarla: sanità, edilizia scolastica, trasporti erano e sono fatiscenti, erano e sono insufficienti. Erano e sono i veri omicidi di una gestione della cosa pubblica che guarda soltanto all’immediato, alle urne imminenti, ai profitti facili.
È avvilente veder ribadito ogni giorno quanto dell’istruzione e della formazione degli adulti che saranno non importi a nessuno. Quanto la politica prevarichi sempre sul diritto: alla salute, allo studio, al lavoro, alla socialità. Eppure, noi, gli operatori del settore, quei pochi amministratori attenti, le famiglie, lo stavamo ripetendo da mesi, ormai frustrati e persino adirati: non bastava promettere, serviva fare. Se solo ci avessero prestato ascolto, se solo avessero realmente avuto a cuore la crescita dei ragazzi, quindi del Paese, oggi, forse, staremmo scrivendo una pagina diversa. Oggi, forse, non staremmo negando un’opportunità. Oggi, forse, non staremmo piangendo per un futuro che pare sempre più una chimera.
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