Istruzione e merito: un ossimoro per il nuovo Ministero
Milanese di nascita, avvocato, docente ordinario di diritto romano: Giuseppe Valditara ha 61 anni e vanta, all’attivo, una lunga carriera accademica e politica. A nemmeno una settimana dalla sua nomina a Ministro, però, la sua figura sta già facendo discutere. È lui, infatti, il nuovo inquilino di Viale Trastevere, una personalità dalle idee decise e parecchio ingombranti, che ne fanno più che un tecnico un esponente politico e fazioso, qualora confermasse le sue inclinazioni federaliste, a discapito di un Sud che arranca e non solo in materia scolastica.
In particolare, a lasciare perplessi è soprattutto la nuova denominazione del dicastero da lui presieduto: Ministero dell’Istruzione e del Merito. Cosa significa? Significa che, da oggi, si guarderà con attenzione alla possibilità di differenziare, classificandola, la popolazione scolastica. Significa distinguere – secondo criteri ancora da stabilire – che per lo Stato italiano a scuola non siamo tutti uguali. Significa premiare alcuni e umiliare altri.
Per definizione, il Ministero dell’Istruzione dovrebbe garantire apprendimento, formazione e conoscenza a ognuno senza distinzione, di classe come di qualsiasi altro termine di discriminazione. Dovrebbe garantire lo stesso diritto all’insegnamento, al docente come allo studente, perché non esiste – e non deve esistere – la possibilità di valutare la docenza secondo dei parametri oggettivi o, peggio, algoritmici. Dovrebbe insegnare ai ragazzi che la scuola non è competizione, non è me contro te, è solidarietà, fratellanza, mettersi in discussione per crescere e non per schiacciare. Un discorso che potrebbe estendersi anche al corpo insegnanti.
Con questa dicitura, invece, si intende porre un accento diverso, servirsi del merito, ovvero lo strumento più classista e sfruttante della storia, per dividere, per evidenziare la differenza tra chi si spacca la schiena – e, quindi, all’interno della logica capitalista, chi produce senza sosta – e chi invece non lo fa, seguendo le stesse logiche della produzione che hanno coniato l’ingiusto mercato del lavoro di oggi. Di conseguenza, insomma, si intende differenziare sul piano economico, professionale e personale il mestiere dell’insegnante.
Al di là di tutte le recriminazioni pedagogiste che condannano il concetto di merito all’interno della scuola, in particolare per ciò che concerne gli studenti (e a cui ci accodiamo), vale la pena – in questa sede – soffermarsi proprio sull’ultimo aspetto, vale a dire la suddivisione interna al corpo docente che, ancora una volta, rischia di essere strumentalizzato, vittimizzato da un sistema politico e dominante che non intende in alcun modo tutelarlo, bensì ridimensionarlo per sgretolarlo, demoralizzarlo, persino umiliarlo. Per premiarlo, laddove non è possibile – vogliamo ribadirlo – valutarne la capacità di insegnamento (se non sotto un profilo meramente nozionistico) a seconda di come soffia il vento del momento.
Si parla, spesso, nel nostro Paese di meritocrazia, soprattutto della sua assenza. Un dato in qualche modo oggettivo che inasprisce gli animi dinanzi alle disparità che ci ritroviamo a subire, ognuno nel suo, quotidianamente. Eppure, la soluzione – almeno per ciò che concerne la scuola – non può certamente riscontrarsi nell’introduzione, senza alcun senso, se non di natura propagandistica e politica, di una dicitura diversa, altisonante, che va a rimpiazzare quella che un tempo era pubblica.
Così, il Ministro, per giustificarsi, ne parla non come di un fattore discriminatorio, bensì come di «un valore costituzionale, chiaramente affermato e declinato dall’articolo 34 della Costituzione. […] La scuola è l’infrastruttura più importante del Paese» dice. «Deve, in primo luogo, saper individuare, valorizzare e fare emergere i talenti e le capacità di ogni persona indipendentemente dalle sue condizioni di partenza […] perché ciascun giovane possa avere una opportunità nel proprio futuro, tra l’altro in consonanza con la lettera e lo spirito dell’articolo 3 della Costituzione. Favorire il merito significa dare alle scuole infrastrutture e dotazioni di qualità, valorizzare gli operatori scolastici, sintonizzarsi con il mondo del lavoro, agire sulle competenze, fornire gli strumenti per sviluppare un percorso di crescita individuale e collettivo». Un discorso che comunque non convince.
La meritocrazia nei corridoi dei nostri istituti finisce, infatti, soltanto con il garantire il potere e le caste, per schiacciare gli ultimi, per annichilire chi è più lento o meno fortunato. Tutto il contrario, insomma, di un concetto democratico che dovrebbe riscontrare nella scuola il suo primo baluardo, un porto sicuro in cui uguaglianza e merito si incontrano e integrano in un processo collettivo che crea comunità, solidarietà di gruppo, mobilità sociale.
Per Valditara «non c’è tempo per le polemiche». Per noi, invece, è tempo di riflessione e azione perché l’introduzione del merito non sia una spia culturale, un chiaro messaggio di un governo che punta alla società dei più forti, dei più valorosi perché già avvantaggiati per natura, per condizioni di partenza, per opportunità di contesto di provenienza.
È iniziato tutto con la Buona Scuola, con il preside che è diventato dirigente, con la scuola che si è fatta azienda. E, invece, non c’è nulla di più lontano dall’istruzione del concetto di merito. Prendo in prestito una riflessione letta sulle pagine di Tlon: Nel 1958 lo psicologo Michael Young pubblicò la satira distopica “The rise of meritocracy” per mettere per primo in luce la nascita di una società profondamente ingiusta e disumana, fondata sul merito, ossia sull’esercizio dell’intelligenza, che va misurato, comparato e premiato. Con il termine intelligenza si intende quindi “la capacità di aumentare la produzione: questa ferrea misura è il criterio con cui la società giudica i suoi membri”.
Nella Scuola del Merito i bambini e i ragazzi sono già al lavoro per aumentare la produttività sociale: non c’è tempo e modo per fiorire, per conoscersi, per imparare ad imparare. C’è soltanto una perenne chiamata di massa a contribuire al focolare della Nazione.
Nella scuola del Merito al centro c’è l’idea di “premiare i migliori” – ossia i più produttivi – e punire i peggiori, dimenticando in questo modo il senso profondo, democratico e aperto dell’Istituzione.
Ma non è corretto sfruttare il merito come strumento per creare una voragine tra chi riesce e chi non riesce, tra chi è dotato e chi non lo è. Fingendo di non sapere che nella riuscita abbiano un’enorme influenza le condizioni economiche, sociali, culturali di provenienza, e che la meritocrazia è un modo di garantire il potere a chi ce l’ha già. Il merito serve a “Spingere l’ambizione a puntare sempre più in alto, e allineare l’ideologia del popolo alle esigenze della nuova era scientifica”. A correre sempre più velocemente verso l’abisso che abbiamo scavato.
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