Invaccinabili: nessun diritto per i pendolari della scuola
Li chiamano gli invaccinabili e sono quei tanti per i quali, al momento, non è previsto alcun accesso alle immunizzazioni. Sono i pendolari della scuola, una vita in stazione, fermi in attesa di una chiamata che ancora non arriva. Vivono perlopiù in Campania, ma prestano servizio come docenti o personale ATA nelle regioni limitrofe, in particolare nel Lazio. Sono quei tanti per i quali non esiste alcun elenco apposito, soltanto un treno da e verso casa.
Per loro non c’è nessuna possibilità di accedere ai farmaci. Nella terra di Zingaretti, dove lavorano, non possono essere vaccinati perché le dosi vengono assegnate in base alla residenza, dunque solo a chi appartiene alle ASL laziali. La Campania di De Luca, invece, si rifà alle scuole che inseriscono i propri dipendenti su un’apposita piattaforma. In questo modo, a essere vaccinato è soltanto chi lavora in regione. Per tutti gli altri, anche se residenti, non è previsto alcun registro. Eppure, loro, i pendolari, sono tra i soggetti più a rischio: non soltanto perché costretti a viaggiare ogni giorno da Napoli a Roma e viceversa ma, anche, perché nel Lazio gli istituiti scolastici sono aperti, dunque la didattica si fa in presenza. Per quale motivo, allora, le due Regioni non tentano una mediazione? Non si tratta, questo, dell’ennesimo diniego di un diritto fondamentale quale quello alla salute?
Alcuni dirigenti scolastici hanno già sollecitato il Presidente campano e i Ministeri di competenza, ma a oggi non è ancora stata trovata una soluzione, sebbene, da almeno un paio di settimane, Palazzo Santa Lucia si sia reso disponibile a somministrare le dosi vaccinali anche al personale scolastico che presta servizio fuori regione. Ha precisato, tuttavia, che per rispondere alle esigenze dei circa 10mila interessati c’è bisogno di una fornitura extra di farmaci poiché quella attuale è sufficiente appena per la vaccinazione dei dipendenti che operano sul territorio campano. Al momento, però, nulla è cambiato. E mentre De Luca aspetta una risposta dal Governo centrale, a vivere lo stesso stallo sono anche i docenti abruzzesi fuorisede, pure loro impiegati soprattutto nel Lazio e sprovvisti di una qualche garanzia sul proprio presente e futuro.
Una proposta, invece, è stata avanzata dalla Commissione Istruzione della conferenza delle Regioni che ha suggerito al personale interessato di cambiare il proprio medico di base. Ovviamente non senza polemiche. Perché una persona che trascorre soltanto una parte della propria giornata lontano da casa dovrebbe scegliere un dottore che non potrebbe seguirla nella sua quotidianità? E perché dovrebbe negarsi l’assistenza dell’esperto che, magari, la conosce da tempo e sa già di cosa necessita in qualità di paziente? Un medico non è un passacarte e insieme ai propri assistiti meriterebbe decisamente più rispetto.
Un modo per ovviare, in fondo, esiste ed è semplice: basterebbe prevedere per il personale scolastico lo stesso trattamento riservato a quello sanitario, vale a dire la possibilità di essere vaccinato nelle regioni in cui questi presta servizio. Al contempo, si potrebbe studiare una strategia condivisa tra i Governatori che alleggerisca il peso di frustrazione cui i docenti e i dipendenti ATA sono oggi costretti, preoccupati da una paradossale situazione di limbo cui nessuno ha pensato all’atto della stesura del piano vaccinale, già di per sé non ovunque così efficiente. L’ennesima paradossale situazione a discapito di una categoria sempre svilita, messa in disparte, costantemente umiliata da un sistema politico e societario che non le riconosce diritti e nemmeno dignità.
Se già nelle primissime settimane successive alle riaperture di settembre si denunciavano inadempienze e ritardi per ciò che concerneva i test, con il rifiuto da parte degli organi preposti a effettuare il tampone ai docenti di classi in cui si riscontrava almeno un caso di positività (qui la nostra denuncia: https://www.professionedocente.it/2020/10/15/ai-docenti-non-si-fanno-tamponi/), questa nuova circostanza conferma quel disinteresse di fondo che vede la scuola e chi la vive quotidianamente sempre ai margini. A volte perché ritenuto un mondo di privilegiati, altri perché l’unico modo per preservare lo status quo attuale è fermare l’istruzione, la prima, valida mossa cui si ricorre all’occasione più ghiotta.
Dai tagli di ieri alla dad di oggi (purtroppo inevitabile a causa di un preciso disegno politico che negli anni ha sempre visto la scuola denigrata da personale carente, strutture fatiscenti e alcun sistema dei trasporti dedicato che potesse rispondere alle esigenze dell’utenza), nulla ha mai fatto presupporre un reale slancio a tutela della formazione degli studenti come del diritto al lavoro degli insegnanti. E una dimostrazione – un’altra – è la mancata previsione di un permesso speciale che fosse al di fuori delle tipologie garantite da contratto e che consentisse al personale di assentarsi, senza risvolti di alcun tipo, nei giorni di chiamata alla vaccinazione. Una mancanza che il Ministero ha giustificato sostenendo che alle dosi di farmaco accede solo chi sceglie di farlo volontariamente. Un po’ offensivo in piena pandemia.
Insomma, che si tratti di tamponi o vaccini, di didattica a distanza (spesso, senza fornire il materiale necessario alla sua miglior resa) o della folle proposta – per fortuna, bocciata – di recuperare il tempo perduto andando in aula anche in estate o di mascherine non a norma da destinare a docenti e alunni, la scuola è sempre vittima di una qualche ingiustizia atta a mortificarla. La scuola è sempre la prima rinuncia. Mai la priorità, solo un passatempo.
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