Tutti in classe? No, grazie. Governo e Azzolina perdono ancora
La partita è sempre la stessa, gli sconfitti pure: anche stavolta le scuole restano chiuse. A nulla sono valse le solite rassicurazioni del governo e di Azzolina, entrambi usciti perdenti anche dall’ultimo round di uno scontro snervante che si consuma ormai da undici lunghissimi mesi. E, così, dopo l’ennesimo – inspiegabile – slittamento dal 7 all’11 gennaio, le aule resteranno vuote, con le lezioni che si consumeranno a distanza ancora per molte settimane.
Ad aggiungersi per ultima alla lunga lista di regioni – Friuli Venezia Giulia, Marche, Sardegna, Veneto, Calabria, Sicilia – che avevano già annunciato di non intendere seguire le direttive governative, programmando la riapertura degli istituti al prossimo 1 febbraio, è stata la Basilicata. Tempi più brevi, invece, si prospettano per Lazio, Liguria, Molise, Piemonte e Puglia che, al momento, resteranno in dad fino al 18 gennaio. In cambio, una settimana dopo, il 25 gennaio, potrebbero tornare in classe Campania, Emilia-Romagna, Lombardia e Umbria, con alcuni dei Presidenti di Regione che non si sono mai veramente sbilanciati sull’effettiva fattibilità della didattica in presenza. Su tutti, Vincenzo De Luca e Attilio Fontana: il primo invitando i vertici a valutare una zona arancione per l’intero Stivale fino a fine mese; il secondo temendo un presto ritorno in zona rossa. Un rischio che, in realtà, corrono in molti. La paventata nuova stretta nazionale, infatti, pare prevedere zone rosse automatiche laddove l’incidenza settimanale dei casi dovesse risultare superiore a 250 ogni 100mila abitanti. Un numero affatto irraggiungibile in ottica terza ondata e, appunto, ritorno in aula, con i soliti vecchi disagi dovuti, in particolar modo, a un sistema dei trasporti solo minimamente incrementato.
Di opinioni diverse, invece, Valle d’Aosta (RT 1.07), Toscana e Abruzzo (RT -1) che sin da subito hanno scelto di riaprire i cancelli delle secondarie di secondo grado. Anche stavolta, dunque, ha vinto il muro dei no, quello contro il quale da mesi il Ministero dell’Istruzione di Lucia Azzolina si sta battendo, incassando soltanto sonore sconfitte. E anche stavolta la soluzione era ben più semplice di quanto poi non si sia rivelata. Dalle Regioni ai docenti, dagli studenti ai medici, infatti, i contrari al ritorno in classe avevano chiesto soltanto di aspettare qualche settimana, di monitorare con dati certi se e quanto le misure adottate nel periodo natalizio avessero effettivamente avuto un impatto sulla curva dei contagi. Dal MI, invece, non ne hanno voluto sapere, finendo come sempre con il seguire quella stessa linea autoritaria della scorsa estate che, tuttavia, a oggi non ha prodotto grandi risultati se non spaccature nette e del tutto evitabili.
A tal proposito, il Ministro non ha nascosto il suo disappunto, accusando i governatori di aver scelto di prorogare ben prima di conoscere i risultati del monitoraggio sulle fasce di rischio: «Vorrei ricordare che il 23 dicembre è stata firmata all’unanimità l’intesa con le Regioni che prevedeva il rientro il 7 gennaio. Per me gli accordi sono importanti, se si scrivono devono essere mantenuti. Invece molte Regioni si sono sfilate: sarebbe bene che le famiglie e gli studenti capissero perché». A chi accusa esecutivo e governatori di non assumersi le responsabilità, invece, ha risposto che «non c’è nessuno scaricabarile. II governo ha fatto la sua parte. Alcuni presidenti non si rendono conto che chiudendo le scuole producono un danno economico al Paese, che pagherà la mancanza di competenza dei suoi giovani. Ma è anche un danno umano e relazionale. […] Si chiude prima la scuola perché socialmente è stata messa nel fondo dello sgabuzzino». E su quest’ultimo punto è difficile darle torto.
Sin dall’inizio della pandemia, infatti, la risposta più semplice all’emergenza sanitaria e all’enorme quantità di persone che dalla scuola e per la scuola si muove è stata la chiusura. Così, quando il Ministro si chiede perché nelle zone che oggi vengono definite a rischio più basso si riaprano bar e ristoranti ma non gli istituti scolastici, non ha torto: «Devono spiegarmi perché, dove è quasi tutto aperto, gli studenti al pomeriggio possono andare a prendere l’aperitivo, mentre non possono andare in classe con la mascherina, l’igienizzante e i banchi separati». E non ha torto quando sottolinea che non si può usare la scuola come terreno di scontro politico perché la scuola è un servizio essenziale, un’ancora di salvezza per famiglie disagiate – e non solo, aggiungeremmo noi – che se non viene calata rischia di condannare migliaia di studenti all’abbandono.
Non ha ragione, però, quando sostiene che il punto sia culturale e non sanitario. A onor del vero, i dati dell’ISS cui Azzolina si rifà raccontano di una scarsa incidenza della didattica in presenza sui contagi, tuttavia resta ancora poco chiara l’attendibilità di certi studi in un Paese che ha visto le scuole aperte per un lasso di tempo decisamente troppo breve per poter con certezza affermarne l’innocuità e sprovvisto, com’è, di un vero e proprio sistema di tracciamento capace di garantire la sicurezza delle nostre aule. Resta poco chiaro, inoltre, il ruolo di tutto ciò che avviene prima e dopo le lezioni, come il ritorno a casa sui mezzi pubblici.
Altro e, ormai, non più procrastinabile aspetto riguarda le vaccinazioni. A oggi non è ancora stabilito con certezza quando il personale scolastico sarà sottoposto a immunizzazione, nonostante il prossimo rientro in classe. Perché non si è scelto di vaccinare anch’esso in questa fase? Non sarebbe stato un primo, importante, passo verso una scuola finalmente sicura e la messa in pratica di quel millantato assunto di istruzione come bene di prima necessità? Come può Azzolina affermare che il nostro non sia, anche, un problema sanitario se la salute stessa non è una priorità?
È difficile – e non è nemmeno nostra intenzione – prendere posizione nel dibattito Governo-Regioni. Quel che è certo è che entrambe le parti agiscono su un terreno di scontro che è soltanto di natura politica, che è soltanto salvaguardia della propria poltrona. Del futuro dei giovani, della salute dei docenti e delle famiglie tutte, invece, non interessa a nessuno. E a nessuno, COVID o meno, continuerà a interessare.
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