Scuola, quanto lavoro sommerso
Una ricerca dell’Osservatorio conti pubblici italiani ha di recente denunciato un dato piuttosto interessante che, tuttavia, difficilmente troverà spazio nel dibattito italiano. Affrontando il tema del lavoro sommerso, infatti, è venuto fuori che le ore lavorative non riconosciute da contratto e, dunque, da busta paga per i docenti del nostro Paese sono tantissime, decisamente troppe per non porre l’attenzione su quelli che, tutt’oggi, sono diritti negati.
Stando a uno studio di Movimento Docenti, queste ore ammontano a una cifra che va dalle 1630 alle 2000 annue. Ben al di là, dunque, delle 18 ore settimanali che spesso vengono attribuite agli insegnanti per denigrarne l’operato, soprattutto per accusarli dei famosi tre mesi di ferie.
Sono ore, queste, che comprendono la preparazione alle lezioni, la correzione dei compiti svolti in classe, le riunioni e varie altre attività accessorie che, tuttavia, non sono mai prese in considerazione né in fase di discussione contrattuale né di riconoscimento, se vogliamo anche solo di facciata.
Il Movimento Docenti ha suggerito, a tal proposito, di concretizzare questo impegno extra in 36 ore settimanali da svolgere nella propria istituzione scolastica di riferimento ma una simile soluzione, ovviamente, richiederebbe sforzi non indifferenti al fine di realizzare ambienti di lavoro adeguati, strumenti e strutture in grado di garantire agli insegnanti di concludere al meglio le proprie mansioni. Chiunque ha messo piede in una delle nostre scuole sa che si tratta, purtroppo, di un qualcosa di piuttosto difficile da realizzare in termini organizzativi, di personale, di spazi. Insomma, servirebbe una vera rivoluzione,
In alternativa, è stata proposta anche una revisione dell’orario di lavoro da spalmare su cinque o sei giorni a settimana con, magari, il riconoscimento del diritto alla mensa o l’introduzione di buoni pasto. Tutte attenzioni che non solo migliorerebbero le condizioni di lavoro ma costituirebbero anche una qualche forma di supporto a una categoria da troppo bistrattata. Il punto principale – inutile negarlo – resta legato alle retribuzioni: quelle dei docenti italiani, infatti, secondo i dati OCSE sono tra le più basse in UE.
Le differenze di stipendio, si evince dal report, interessano tutti gli ordini e gradi scolastici e si attestano tra il 13 e il 15%. A confermare la drammaticità della situazione è il rapporto di Eurydice (Teachers and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe 2019/20) che vede l’Italia fanalino di coda dei 38 differenti sistemi educativi europei.
Inoltre, come se non bastasse il triste confronto UE, i lavoratori dell’istruzione scolastica guadagnano 343 euro lordi in meno dei loro colleghi della Pubblica Amministrazione: se la retribuzione media di tutti i dipendenti statali è pari a 36782 euro, la scuola può contare su una media di 30143 euro (a esclusione dei dirigenti). Perché? Perché gli insegnanti, in questo Paese, sembrano sempre valere meno, poco, nulla?
I docenti chiedono da tempo un adeguamento di stipendio di almeno 200 euro netti mensili a invarianza degli oneri contrattuali. Tutto ciò che a oggi hanno ottenuto, invece, è la somma media di un aumento che ammonta a circa 14 euro netti mensili, venduti da politica e sindacati come grande e, finalmente, meritata conquista. Una risposta non così efficace, invece, per quei docenti che, come dimostrano i dati, in dodici anni hanno perso il 16% circa di potere di acquisto per una riduzione che ha modificato (e tanto) l’appeal dello status di lavoratore della scuola.
Come abbiamo spesso ribadito, chi insegna non si limita a impartire un sapere – che, già di per sé, meriterebbe un adeguato e cospicuo apprezzamento economico. Chi insegna custodisce le chiavi della società: tramanda il passato, analizza il presente, forma i cittadini del futuro. Perché, dunque, il divario economico è ancora così netto? È tempo di colmare il differenziale contributivo esistente con l’Europa e con gli statali, in generale, e rendere il lavoro docente una professione nobile, come il suo intento, valorizzata economicamente e riconosciuta socialmente.
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