Istruzione, ISTAT: ancora divari Nord-Sud
Ogni anno, dal 2008, l’ISTAT offre una selezione di oltre 100 indicatori statistici sulla realtà del nostro Paese, fornendo un quadro d’insieme dei diversi aspetti ambientali, demografici, economici e sociali dell’Italia, delle differenze regionali che la caratterizzano e della sua collocazione nel contesto europeo. Anche stavolta il dossier è arrivato puntuale e, ovviamente, la situazione designata non è la migliore. Nemmeno nel settore che più ci riguarda.
Stando al rapporto, infatti, nel 2021 in Italia la spesa pubblica per l’istruzione incide sul PIL per il 4,1%, un valore più basso di quello medio europeo (4,9%). Nel 2022, prosegue il miglioramento del livello di istruzione degli adulti (25-64enni), per effetto dell’ingresso di generazioni di giovani, mediamente più istruiti, e l’uscita di generazioni di anziani, in genere meno istruiti. La quota di coloro che hanno conseguito al più la licenza media è scesa al 37,4% ma, nel Mezzogiorno, raggiunge il 45,6%. Nel 2020, il tasso di partecipazione di giovani 20-24enni al sistema di istruzione e formazione è uguale al 37,4%, con elevate differenze tra le regioni. L’Emilia-Romagna ha il valore più alto (53,4%) seguita dal Lazio (51,1%). Valori inferiori alla media si registrano, invece, per tutte le regioni del Mezzogiorno (con la sola eccezione dell’Abruzzo), per tre regioni del Nord (Veneto, Liguria e Valle d’Aosta) e per la Provincia Autonoma di Bolzano.
L’Italia mostra un valore inferiore a quello dell’UE (43,5%). Nel 2022, nel nostro Paese, diminuisce la quota di giovani (18-24enni) che abbandonano precocemente gli studi (11,5%) ma, nel Mezzogiorno, l’incidenza ha un valore più elevato (15,1%). L’abbandono precoce degli studi riguarda più i ragazzi (13,6%) delle ragazze (9,1%). Il benchmark europeo per il 2030 è fissato al 9%.
Nel 2022, i giovani (15-19enni) che non lavorano e non studiano (i cosiddetti “NEET” dall’acronimo inglese di Not in employment, education or training) sono circa il 19% della popolazione d’età tra i 15 e i 19 anni, in calo dopo l’aumento registrato nel periodo 2020-2021 per l’impatto negativo della pandemia da COVID-19 sull’occupazione. La percentuale di NEET è più elevata tra le ragazze (20,5%), rispetto ai ragazzi (17,5%) e, nel Mezzogiorno, è quasi doppia (27,9%) rispetto al Centro-Nord (14,0%). Nel 2022, la percentuale dei 30-34enni con un titolo di studio universitario è del 29,2%. Il divario di genere è molto ampio e a favore delle donne (35,5%, rispetto al 23,1% degli uomini).
Il valore italiano – vien da sé – è ancora lontano dall’obiettivo medio comunitario stabilito dalla Strategia Europa 2020 (almeno 40%, nella classe di età 30-34 anni). Nel 2022, la partecipazione degli adulti alle attività formative – fondamentale per favorire l’occupazione degli individui e la loro vita sociale e relazionale – coinvolge il 9,6% della popolazione nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni. La quota resta stabile rispetto al 2021, anno nel quale si è registrato un importante aumento, dopo il significativo calo del 2020, dovuto alle limitazioni governative agli spostamenti e alle attività imposte per arginare la pandemia.
Noi Italia – questo il nome del dossier – sottolinea dunque come, ancora, sia necessario un intervento del legislatore per arginare le notevoli differenze regionali che continuano a registrarsi anno dopo anno. E, invece, il capitolo di spesa previsto per il triennio 2023/2025 della Legge di Bilancio 2023 prevede un taglio per l’istruzione scolastica pari a 4 miliardi e 116 milioni di euro, passando da una spesa complessiva di 52 miliardi e 114 milioni del 2023 a una spesa di 47 miliardi e 997 milioni di euro del 2025. Tutto questo mentre 20 milioni verranno stanziati per le istituzioni scolastiche non statali e i partiti oggi al governo avevano, nel loro programma elettorale, la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso un buono scuola a sostegno proprio degli istituti privati.
Alla luce di questa già desolante fotografia, pensare di vedere a breve realizzato il progetto di autonomia differenziata spaventa e non poco. La stessa Banca d’Italia certifica i molti rischi legati a un simile provvedimento, consigliando estrema prudenza nell’attuare questa riforma per non danneggiare ulteriormente il Paese. Lo Stato italiano, devolvendo gran parte del bilancio pubblico alle Regioni, andrebbe a indebolire fortemente la sua capacità di azione in materia di politica economica con spazi limitati di intervento in caso di recessione. In questo modo, le già marcate differenze e inefficienze si andrebbero non solo a consolidare ma se ne genererebbero di nuove. E pensare che si possa sopravvivere – fuori e dentro le mura scolastiche – diventa una chimera.
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