Accorpamento scuole: al Sud meno istituti, meno diritti, meno lavoro
Dal 2008, in Italia, si registrano sempre meno nascite, attestandosi, dal 2015 a oggi, addirittura sotto il mezzo milione. Gli esperti parlano, ormai, di inverno demografico, l’espressione con cui si indica il fenomeno che ha travolto, inarrestabile, il nostro Paese. L’ISTAT, l’istituto deputato a scattare questa triste fotografia annuale, calcola addirittura che nel 2050 gli abitanti dello Stivale potrebbero ridursi fino a cinque milioni, di cui due composti da giovani. Le conseguenze principali, vien da sé, sono l’invecchiamento del Paese, l’impossibilità di un ricambio generazionale necessario e, ovviamente, lo spopolamento di alcune aree, come quelle del Sud, già profondamente segnate dal fenomeno migratorio dovuto a fattori diversi riassumibili in quella mai risolta questione meridionale.
È su questa scia – e sul sogno di autonomia differenziata che tanto insegue la politica – che va analizzata un’altra delle discutibili iniziative inserite nella Legge di Bilancio approvata lo scorso dicembre e che proprio in quel Sud avrà un impatto maggiore in termini di diritti allo studio e al lavoro. Parliamo, nello specifico, degli accorpamenti che le scuole subiranno dall’anno scolastico 2024/2025 e che verranno decisi entro il 30 novembre dell’anno in corso.
Al momento, la tabella inerente alle possibili proposte di accorpamento è sul tavolo della Conferenza delle Regioni che dovrà deliberare in merito entro il 31 maggio, se non intende passare la palla al Ministro Giuseppe Valditara. La Manovra di Bilancio prevede, infatti, che, attraverso una modifica dell’articolo 19 del decreto legge 98/11, si possa realizzare la riorganizzazione del sistema scolastico prevista nel PNRR con uno specifico decreto del Ministero dell’Istruzione e del Merito, di concerto con il MEF, previo accordo in sede di Conferenza unificata, con il quale entro il 30 giugno di ciascun anno viene definito l’organico dei dirigenti scolastici e dei DSGA.
Più concretamente, a subire il dimensionamento saranno prevalentemente le province di Campania, Calabria, Puglia, Basilicata, Molise, Abruzzo, Sicilia e Sardegna, con la terra un tempo Felix prima nella lista delle regioni per accorpamenti di istituto. Per la Campania parliamo, infatti, di circa 146 fusioni, il che significa un taglio del personale ATA stimabile in almeno 500 unità e la cancellazione di 292 dirigenti. Il vecchio preside, dunque, diventerà unico per i due istituti ormai fusi, raddoppiando la propria mole di lavoro, così come la metà saranno i membri del personale ATA, anch’essi vittime di un aumento sproporzionato delle mansioni da svolgere.
Le fusioni, lo dicevamo, si concentreranno per circa il 70% nel Mezzogiorno, un dato che è conseguenza di quel calo demografico di cui sopra, dunque della sempre minor quantità di domande di iscrizione scolastica, ma anche di una politica ben precisa che con crescente convinzione si va perseguendo. Non è da escludere, dunque, un possibile scontro in fase decisionale, con il Sud che potrebbe muoversi compatto contro quel Nord che quasi non risentirà del dimensionamento.
Al momento, la norma prevede che gli istituti possono restare aperti con meno di 600 alunni solo in due casi: nelle piccole isole e in località di montagna. Il Meridione potrebbe allora proporre una terza eccezione da applicare a zone con particolari disagi di carattere socio-economico al fine di scongiurare un ulteriore abbandono di terre ormai depredate di vita e opportunità, ma anche già vittime di dispersione scolastica implicita ed esplicita. Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica dell’intero Paese.
I più colpiti saranno, ovviamente, gli studenti delle famiglie più povere e quelle con background migratorio. Già oggi, nei territori a più alto tasso di povertà educativa, come le regioni del Sud, le aree interne e le periferie delle grandi città, l’offerta scolastica è più debole, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Per la mancanza del tempo pieno, un bambino che cresce nel Mezzogiorno arriva al termine delle scuole primarie avendo alle spalle l’equivalente di un anno in meno di scuola rispetto a un coetaneo del Settentrione. I diritti fondamentali che dovrebbero essere sempre garantiti, dunque, restano ancora, per la vita quotidiana di milioni di bambini e bambine, solo degli slogan vuoti.
E lo restano, nei fatti, anche quelli dei più adulti che come lavoratori e come singoli individui non solo perderanno il proprio impiego, ma – per chi lo manterrà – dovranno addirittura faticare il doppio perché alla crisi denunciata dall’ISTAT e non solo si risponde, come sempre, con la negazione, con la soluzione più veloce, meno nobilitante e chiaramente – volutamente – distruttiva. Basti pensare che il capitolo di spesa previsto per il triennio 2023/2025 della Legge di Bilancio 2023 prevede un taglio per l’istruzione scolastica pari a 4 miliardi e 116 milioni di euro, passando da una spesa complessiva di 52 miliardi e 114 milioni del 2023 a una spesa di 47 miliardi e 997 milioni di euro del 2025.
Tutto questo mentre 20 milioni verranno stanziati per le istituzioni scolastiche non statali e il Ministero dell’Istruzione e del Merito valuta la possibilità di istituire le gabbie salariali – stipendi più alti a chi lavora in regioni con un più alto costo della vita (Nord Italia) – e i partiti oggi al governo avevano, nel loro programma elettorale, la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso un buono scuola a sostegno proprio degli istituti privati. Tutto secondo i piani.
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