Scuola: serve l’aumento, non il docente esperto
Si chiama docente esperto ed è l’ultima, inutile, novità del mondo della scuola. Introdotta con il Decreto Aiuti Bis approvato la scorsa settimana dal Consiglio dei Ministri uscente, la nuova figura sarà attiva dall’anno scolastico 2023/2024 ma già fa parlare – e tanto – di sé.
Il docente esperto, in effetti, sarà selezionato tra gli insegnanti di ruolo che abbiano conseguito una valutazione positiva nel superamento di tre percorsi formativi consecutivi e non sovrapponibili, al termine dei quali chi verrà scelto guadagnerà all’incirca 5650 euro annui in più rispetto ai propri colleghi. Tali figure, comunque, non potranno essere più di 8mila, vale a dire una per ogni istituto e, dopo la nomina, dovranno restare nella stessa istituzione scolastica per almeno il triennio successivo al conseguimento della qualifica.
Stando ai tempi di ciascun percorso formativo, dunque, non si avranno docenti esperti prima dei prossimi nove anni. Nel frattempo, quella che qualcuno osa chiamare mezza rivoluzione, nei fatti, non cambierà né migliorerà il sistema scolastico che da troppo attende una seria proposta, in particolare per ciò che concerne il personale, il cui contratto è fermo da tempo immemore.
È da qui che nasce la polemica di docenti e sindacati, dall’ennesimo fumo negli occhi che illude la scuola di un’attenzione che, in realtà, nessuno intende prestarle.
La formazione incentivata era già prevista dalla legge 79, attuativa del PNRR: inizialmente, si era pensato a un meccanismo legato a un’accelerazione degli scatti di anzianità – sempre dopo aver seguito i corsi – poi, però, si era giunti all’incentivo una tantum tra il 10 e il 20% dello stipendio in base alle risorse disponibili ogni anno, scatenando la reazione insoddisfatta della Commissione UE che ne aveva chiesto un ulteriore rafforzamento. Così, il governo dimissionario guidato da Mario Draghi, a cui spettano soltanto i cosiddetti affari correnti, ha ben pensato di trovare il tempo per varare una modifica di cui, tuttavia, non si avvertiva la necessità – non in questi termini almeno – e della quale non si registra l’effettiva urgenza, in risposta a un sistema scuola che fa acqua da tutte le parti.
Il decreto, in effetti, non specifica ciò di cui il docente sarebbe esperto né quale sarebbe il suo apporto innovativo all’interno dell’istituto per il quale lavora. Tutto ciò che è dato sapere è che ai corsi gli insegnanti potranno aderire in modo volontario e che dovranno svolgere 15 ore per la scuola dell’infanzia e primaria e 30 ore per la scuola secondaria di primo e secondo grado, oltre a ore da dedicare ad attività di progettazione, mentoring, tutoring e coaching a supporto degli studenti nel raggiungimento di obiettivi scolastici specifici e di sperimentazione di nuove modalità didattiche.
L’assegnazione del premio avverrà, poi, grazie al lavoro del Comitato di valutazione delle scuole che ne determina i criteri, tra i quali l’innovazione delle metodologie e dei linguaggi didattici, la qualità e l’efficacia della progettazione didattica, nonché la capacità di inclusione. Insomma, una serie di paroloni che non siamo sicuri significhino concretamente qualcosa. A tal proposito, in queste ore su Change.org è stata lanciata una petizione che mira alla revisione dell’introduzione del docente esperto, ottenendo più di 11mila firme e il solito malcontento generale.
Gli insegnanti si chiedono, infatti, perché – al netto di una previsione di spesa da destinare in prospettiva a una percentuale estremamente bassa di docenti – non si possa pensare a un adeguamento del contratto nazionale che possa favorire tutti e non soltanto pochi eletti, generando una competizione malsana che forse, tra dieci anni, vedrà i suoi frutti per qualcuno. Per gli altri, per tutti gli altri, non ci sono e non ci saranno prospettive, soprattutto per coloro che tra un decennio saranno prossimi alla pensione e non avranno avuto diritto a nessuna remunerazione coerente con la mole di lavoro svolta.
Gli stipendi dei docenti italiani, d’altro canto, sono mediamente i più bassi d’Europa e i più bassi in assoluto tra i dipendenti della pubblica amministrazione a parità di titolo di studio. I lavoratori dell’istruzione scolastica, infatti, guadagnano 343 euro lordi in meno dei loro colleghi statali: se la retribuzione media di tutti i dipendenti della pubblica amministrazione è pari a 36782 euro, la scuola può contare su una retribuzione media di 30143 euro (a esclusione dei dirigenti).
Inoltre, gli stipendi iniziali degli insegnanti italiani si collocano tra 22mila e 29mila euro lordi annui. Tra 30mila e 49mila quelli dei colleghi belgi, irlandesi, spagnoli, austriaci, finlandesi, svedesi, islandesi, norvegesi. Addirittura superiori a 50mila euro si registrano, invece, gli stipendi di Danimarca, Germania, Lussemburgo, Svizzera e Liechtenstein.
In effetti, il governo uscente è lo stesso che ha incrementato le spese militari fino al 2% del PIL, mentre la spesa per l’istruzione in Italia è pari al 4% del Prodotto Interno Lordo (contro il 4.6% della media UE) e all’8.2% della spesa pubblica totale (9.9% in UE). Inoltre, l’investimento è diminuito del 7% tra il 2010 e il 2018 e, per le scuole superiori, si è ridotto fino a quasi il 20% negli ultimi dieci anni. Stesso discorso per l’università, dove la spesa è la più bassa dell’Unione Europea.
Insomma, cambiano le casacche, gli esecutivi, si alternano tecnici e politici, ma non cambia nulla. A dimostrazione, insomma, che l’affossamento della scuola, in Italia, non è una questione partitica, ma strutturale, corrispondente a un’idea di Paese che non intende formare, piuttosto soggiogare. E a guardare i programmi di chi mira alla poltrona il prossimo 25 settembre, nemmeno stavolta, ci sentiamo smentiti.
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