Riforma scuola: rinviata la discussione mentre aumentano i precari
Il decreto 36 su reclutamento e formazione dei docenti divide il governo. Per venerdì 17, infatti, era fissato il voto conclusivo nelle Commissioni Affari Costituzionali e Cultura del Senato, invece – come prevedibile –, la decisione è slittata probabilmente al prossimo lunedì. Da giorni, in effetti, i partiti di maggioranza – praticamente tutti – avevano proposto un emendamento complessivo che potesse servire a modificare alcune norme.
Parliamo, innanzitutto, dell’abolizione delle prove a risposta multipla per i concorsi, dei tagli agli organici e alla carta del docente per finanziare la formazione continua, della riapertura delle graduatorie di merito agli idonei e della possibilità per gli insegnanti di sostegno con tre anni di esperienza di accedere ai corsi di specializzazione.
La Commissione potrebbe approvare l’emendamento anche in caso di voto contrario del governo, ma in questa circostanza si aprirebbe a una discussione diversa, di natura politica, che rischierebbe di non accontentare tutte le parti in causa. Una possibilità che, al momento, ci sembra lontana.
Come sappiamo, il testo sostenuto dal Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi attualmente al vaglio definisce le modalità di formazione iniziale, abilitazione e accesso all’insegnamento nella scuola secondaria così ripartite:
– un percorso universitario abilitante di formazione iniziale (per almeno 60 crediti formativi) con annessa prova finale;
– un concorso pubblico nazionale con cadenza annuale;
– un periodo di prova in servizio di un anno con valutazione conclusiva.
In particolare, il percorso di formazione abilitante potrà essere svolto sia dopo la laurea sia durante il percorso formativo in aggiunta ai crediti necessari per il conseguimento del titolo e prevede un tirocinio nelle scuole. La prova finale, invece, consiste anche in una lezione simulata per comprovare le capacità di insegnamento, ovviamente, le conoscenze dei contenuti disciplinari.
Ottenuta l’abilitazione, sarà dunque possibile accedere ai concorsi, che diventeranno di cadenza annuale. A questo punto, i vincitori saranno assunti per un periodo di prova, della durata di un anno, che terminerà con una valutazione che attesterà le competenze didattiche acquisite. L’esito positivo garantirà, finalmente, l’immissione in ruolo.
Nel frattempo, in attesa che questo nuovo sistema si concretizzi, chi insegna da almeno tre anni nella scuola statale può partecipare direttamente ai concorsi. Alla vittoria dovrà conseguire 30 crediti universitari e svolgere la prova di abilitazione. Chi, invece, non ha già svolto i tre anni di docenza, può conseguire comunque i crediti – compresivi del periodo di tirocinio – che andranno poi a sommarsi agli altri 30 per sostenere la prova di abilitazione.
Il decreto stanzia un apposito fondo che servirà a riconoscere ai docenti l’incentivo alla formazione:
– 20 milioni di euro nel 2026;
– 85 milioni di euro nel 2027;
– 160 milioni di euro nel 2028;
– 236 milioni di euro nel 2029;
– 311 milioni di euro nel 2030;
– 387 milioni di euro dal 2031.
Ed è su questo punto che si apre la messa in discussione della Carta del docente. Al momento, infatti, si valuta la possibilità che la misura possa essere eliminata o ridotta per finanziare le altre manovre. Una scelta che non soddisfa gli insegnanti.
Invariata dovrebbe restare anche la formazione continua incentivata contro la quale proprio di recente ha scioperato il 20% del corpo docente italiano.
Nello specifico – stando a quanto finora previsto – la formazione in servizio, oltre a essere continua, sarà strutturata in modo da favorire l’innovazione dei modelli didattici sulla falsariga di quanto accaduto – con molte, moltissime, difficoltà – nel bel mezzo della crisi pandemica: fondamentali, infatti, diverranno le competenze digitali. L’uso critico e responsabile degli strumenti digitali rientrerà nelle nozioni da apprendere nel percorso di formazione già obbligatoria per tutti che si svolgerà nel corso dell’orario lavorativo.
Su base triennale sarà, invece, il nuovo sistema di aggiornamento e formazione che consentirà di acquisire conoscenze e competenze per progettare la didattica con strumenti e metodi innovativi. Questo aggiornamento sarà svolto al di là dell’orario e potrà essere retribuito dalle scuole se comporterà un ampliamento dell’offerta formativa. I percorsi svolti saranno anche valutati con la possibilità di accedere, in caso di esito positivo, a un incentivo salariale forfettario. L’accesso a tali percorsi di formazione avverrà su base volontaria, mentre sarà obbligatorio per i docenti immessi in ruolo in seguito all’adeguamento del contratto ai sensi del comma 9 e in ogni caso non prima dell’anno scolastico 2023/2024.
Al fine di incentivarne l’accesso – si legge nel documento – è previsto un meccanismo di incentivazione salariale per tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado del sistema scolastico. Tuttavia, l’attribuzione dell’incentivo salariale selettivo potrà essere riconosciuta a non più del 50 per cento di coloro che ne abbiano fatto richiesta. Inoltre, questo scatterà solo al superamento di ogni percorso di formazione per una somma che sarà stabilita dalla contrattazione nazionale nei limiti e secondo le modalità previste.
I percorsi di formazione continua saranno definiti dalla Scuola di alta formazione, istituita con la riforma in oggetto, che si occuperà delle linee di indirizzo in materia e di accreditare e verificare le strutture che dovranno erogare i corsi per garantirne la massima qualità. La Scuola si occuperà anche dei percorsi di formazione di dirigenti e personale ausiliario, tecnico e amministrativo (ATA).
L’indennità una tantum è corrisposta nel limite di spesa di cui al primo periodo, nell’anno di conseguimento della valutazione individuale positiva. Agli oneri derivanti dall’attuazione del presente comma si provvede mediante razionalizzazione dell’organico di diritto effettuata a partire dall’anno scolastico 2026/2027. Il taglio potrà dunque riguardare le immissioni in ruolo, i trasferimenti dei docenti di ruolo, le assegnazioni provvisorie e, anche, le supplenze al 31 agosto (9.600 posti in meno).
Sono questi, dunque, i nodi più cruciali, quelli che stanno tenendo banco anche in Commissione e che – finché non troveranno una quadra – rischiano di impedire l’arrivo del decreto in Aula, dove probabilmente il governo porrà la fiducia. E, quindi, incontrerà parere favorevole.
Tuttavia, prima di pensare alla scuola del futuro a preoccupare, nel tempo immediato, dovrebbero essere i numeri del precariato, ormai in costante crescita. In base ai dati ufficiali consultabili sul Portale Unico dei Dati della Scuola, i precari rappresentano il 25% dei docenti (complessivamente 212mila). Una percentuale in aumento dal 2015/2016, quando erano 100mila su 700mila. Nel 2016/2017, invece, erano 125mila su 790mila. Nel 2017/2018 134mila su 811mila; oltre 160mila, infine, nel 2018/2019 su 825mila in organico. Nell’ultimo anno prima dell’emergenza Covid erano quasi 190mila i docenti precari su 841mila (il 22%), ma la percentuale è aumentata nel secondo anno di emergenza. 212mila precari su 850 docenti in organico.
La situazione cambia dal punto di vista territoriale: più personale a tempo determinato al Nord Ovest con il 33%, poi nel Nord Est con il 30%; al Centro, invece, è il 27%. Al Sud e nelle Isole, invece i precari sono sotto il 18% (rispettivamente il 15.8% e il 17.9%). Per quanto riguarda i gradi d’istruzione, è la scuola media ad avere il più alto tasso di precarietà con il 32%.
Come si evince, sono tanti i problemi legati alla scuola. Certo, una riforma è necessaria. Certo, non tutto funziona o funziona bene, ma siamo sicuri che quella attualmente al centro del dibattito sia la soluzione? Non si potrebbe prima stabilizzare quanti vivono da precari ma lavorano e si impegnano come gli altri senza pari diritti? Non si potrebbe prima risolvere le criticità strutturali, territoriali e logistiche? Forse, è tempo di depoliticizzare la scuola e le sue riforme e tornare a parlare dei temi.
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