L’Italia non è un Paese per i bambini
Mentre il dibattito nazionale sulla scuola è tornato a ruotare intorno alle mascherine da indossare o meno in vista dei prossimi esami di Stato, nelle ultime settimane due importanti report hanno fotografato la triste condizione di bambini e adolescenti nel nostro Paese, fuori e dentro le mura scolastiche, dove (spesso) sono parimenti ignorati.
Il primo rapporto si chiama Impossibile 2022. Costruire il futuro di bambine, bambini e adolescenti. Ora ed è a cura di Save The Children. Un focus che parte dalla scuola per arrivare alla costruzione di un mondo che sia non solo più a misura di bambino ma, più in generale, di uomini e donne pronti ad affrontare le sfide quotidiane che inevitabilmente spettano loro.
Negli ultimi decenni – si legge nel documento – i principali indicatori sulle condizioni di vita dei bambini e delle bambine nel mondo hanno segnato dei progressi. Troppo lenti, ma significativi. Questo trend di miglioramento – monitorato attraverso gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile – si è interrotto ed è oggi fortemente a rischio. […] I diritti fondamentali che dovrebbero essere sempre garantiti restano ancora, per la vita quotidiana di milioni di bambini e bambine, solo degli slogan vuoti. L’emergenza infanzia assume dimensioni catastrofiche in alcune parti del mondo, ma si manifesta anche in paesi più avanzati, come l’Italia, dove si registra un impressionante declino demografico, crescono le disuguaglianze e aumenta la povertà minorile, assieme al malessere psicologico e sociale degli adolescenti.
L’indagine si concentra, in particolare, sull’educazione e sulla lotta alla povertà che non può non coinvolgere anche la scuola: La pandemia ha prodotto un vero tracollo degli apprendimenti degli studenti, soprattutto nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Apprendimenti che, già prima della crisi sanitaria, disegnavano la mappa di un Paese disuguale, incapace di garantire equità nelle opportunità di crescita. Parliamo della dispersione scolastica implicita, cioè del fatto che il 44% di ragazzi e ragazze alla fine della scuola secondaria superiore non è in grado di raggiungere un livello minimo di competenze in italiano, percentuale che sale al 51% per la matematica. Questo significa non riuscire a comprendere il significato di un testo scritto, saper svolgere un ragionamento logico, fare un semplice calcolo aritmetico. Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un Paese.
I più colpiti sono, ovviamente, gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al Sud e quelle con background migratorio. Anche la dispersione scolastica vera e propria – vale a dire il mancato raggiungimento di un titolo di studio oltre il diploma di terza media – si mantiene, pur con lievi miglioramenti, su una media nazionale elevata e, soprattutto, si concentra maggiormente in alcune regioni del Sud. A tal proposito, precisa Save the Children, la scuola e i territori offrono troppo poco proprio dove la vita per i bambini è più difficile.
Nei territori a più alto tasso di povertà educativa, come le regioni del Sud, le aree interne, le periferie delle grandi città, l’offerta scolastica è più debole, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Per la mancanza del tempo pieno, un bambino che cresce al Sud arriva al termine delle scuole primarie avendo alle spalle l’equivalente di un anno in meno di scuola rispetto a un coetaneo del Nord.
Ecco che, allora, se il 12.7% dei giovani italiani ha lasciato la scuola prematuramente nel 2021, il 16.3% è al Sud. Se i bambini che hanno il tempo pieno alla primaria sono per il 45% al Nord e per il 15% al Sud, significa che alla mensa scolastica, ad esempio, a Milano accede il 95% dei più piccoli, a Palermo appena il 6%. Ma è in Sicilia, o in Campania, che – atavicamente – si registrano i dati più alti di dispersione scolastica. Se si aggiunge, poi, che in tutto il Paese solo il 32% degli edifici è accessibile per gli studenti con disabilità motoria e che 20mila scuole sono sprovviste del certificato di agibilità, il dadoè presto tratto.
Già nel 2020, la campagna Riscriviamo il futuro aveva lanciato l’allarme. In questi ultimi due anni, infatti, presi dalla nostra pandemia, abbiamo pensato e messo in pratica misure che poco o nulla hanno a che fare con la tutela dei minori. Come noi, invece, anche i più piccoli hanno dovuto drasticamente mutare le proprie giornate, riscrivendo la scaletta della routine quotidiana secondo direttive per loro incomprensibili e pericolose. Niente più nonni, niente più scuola, niente più parco giochi o gelato con gli amichetti. Insomma, un’altra vita. Le conseguenze stanno solo iniziando a mostrarsi.
Quando raccontavamo che la pandemia avrebbe compromesso il futuro di bambini e adolescenti, improvvisamente schiacciati tra povertà materiale e contrazione delle opportunità educative denunciavamo proprio questo, l’assenza di un’azione politica, sociale e culturale a supporto dei bambini e di chi a loro dedica le proprie giornate, che sia a scuola o in famiglia. Così il PNRR, che impegna oltre 20 miliardi di euro nel sistema scolastico – a cui si aggiungono i finanziamenti del Pon Istruzione e altre risorse regionali – è un’occasione storica per ripensare, dalle fondamenta, il modo di fare scuola in Italia e promuovere l’educazione di qualità per tutti, a partire dalla prima infanzia.
Basti considerare, infatti, che asili nido e servizi per la prima infanzia in province come Crotone, Caserta o Reggio Calabria presentano una copertura inferiore al 2% su una media nazionale del 13.5% e una media comunitaria del 33%. Anche Treviso, Belluno, Sondrio, Lodi e la città metropolitana di Venezia si attestano su dati decisamente più bassi. E in un periodo storico in cui le famiglie hanno bisogno di lavorare, i genitori hanno sempre meno tempo, gli orari a cui sono costretti sempre più improponibili, si fa necessario trovare delle soluzioni.
Nel suo report, Save the Children propone:
– l’attuazione di un Piano operativo integrato, con gli enti locali e il terzo settore, per raggiungere entro il 2027 il livello essenziale in ogni Comune di 33 posti ogni 100 bambini in asilo nido e servizi educativi per la prima infanzia. Per non vanificare l’investimento sulle infrastrutture degli asili e aprire effettivamente i servizi, definire un investimento per la formazione di almeno 30mila educatori ed educatrici soprattutto nelle regioni del Sud e la sperimentazione di modelli di servizio flessibili e innovativi in grado di far emergere una domanda di servizio inespressa anche nei territori più svantaggiati e a più basso tasso di occupazione femminile;
– l’attivazione progressiva del tempo pieno in tutte le scuole primarie per ridurre i divari educativi e l’attivazione del servizio di refezione scolastica in tutte le scuole dell’infanzia e primarie, da inquadrare come livello essenziale delle prestazioni e da assicurare gratuitamente alle famiglie in condizioni di povertà, residenti e non, anche come misura di contrasto alla povertà alimentare. Per le scuole secondarie di primo grado, apertura pomeridiana degli istituti scolastici, per attività educative di tipo extracurriculare;
– l’approvazione della legge sulla sicurezza scolastica, in discussione in Parlamento, per spazi di apprendimento sicuri, di qualità e sostenibili sul piano energetico;
– l’attuazione della Garanzia Infanzia (Child Guarantee) con un impegno di almeno il 10% del Fondo Sociale Europeo Plus in misure di sostegno per bambini, bambine e adolescenti in povertà assoluta, attraverso piani personalizzati di contrasto alla povertà educativa, al divario digitale e alla dispersione, secondo quanto previsto dal V Piano Infanzia e Adolescenza (Misura 17), estendendo anche la sperimentazione dei ristori educativi (art.5 bis decreto 23.2.22);
– il sostegno strutturato alla costruzione di piani di sviluppo educativo territoriale nell’ambito dei Patti educativi di comunità, con il contributo del Fondo nazionale di contrasto alla povertà educativa, per integrare l’offerta curriculare ed extracurriculare.
Nella stessa direzione vanno, poi, le classifiche relative alla qualità della vita di bambini e giovani in Italia stilate da Il Sole 24 Ore che vedono al primo posto, rispettivamente, Aosta e Piacenza, e più in generale una massiccia presenza di città del Centro-Nord nelle posizioni più alte in graduatoria, confermando il divario, incolmabile, con un Sud che non riesce a stare al passo.
L’Italia, dunque, è attraversata da profonde disuguaglianze territoriali nelle opportunità di crescita dei bambini e degli adolescenti. Vi sono aree del Paese – quartieri di periferia, città satellite, aree interne – dove si concentrano tutte le forme di deprivazione (educativa, economica, ambientale) che rischiano di annientare le aspirazioni dei più giovani. Le disuguaglianze incidono, sin dalla più tenera età, anche nella fruizione dello spazio pubblico, condizionando la crescita, lo sviluppo e il benessere di ciascuno di noi e della comunità tutta. Ma sappiamo bene che proprio le disuguaglianze territoriali – dove si annidano segregazione, insicurezza e potere delle mafie – sono uno dei fattori scatenanti della povertà educativa.
Tutto questo si ripercuote, ovviamente, sul mondo produttivo che lamenta l’assenza di capitale umano da impiegare nelle aziende. Senza entrare nel merito di questioni legate alle retribuzioni – mai dignitose – riflettiamo, dunque, sul gap enorme tra le aspettative del mondo del lavoro e l’offerta educativa. Una grande perdita di talenti, di capacità e di intelligenze.
Le ragazze – denuncia il report di Save the Children – vivono questa deprivazione ancor più dei ragazzi, perché la condizione di NEET si declina, in primo luogo, al femminile […] a causa di consolidati stereotipi di genere e di una barriera ancora più alta da superare per entrare nel mondo del lavoro. Sono nodi da affrontare e sciogliere subito, per guardare al futuro del Paese e lo si può fare solo con una strategia integrata che parta dal mondo della scuola.
[…] Il quadro si fa ancora più cupo se consideriamo che negli ultimi dieci anni circa 345mila giovani, tra i 18 e i 39 anni hanno deciso di lasciare l’Italia per trovare un lavoro altrove. Una scelta in molti casi motivata non dalla giusta esigenza di sperimentarsi temporaneamente in altri contesti, ma dalla assenza di alternativa. L’Italia ha complessivamente pochi laureati. Il percorso di istruzione, in tutto il mondo, migliora le condizioni di vita, non solo sul piano economico. In Italia il figlio di genitori laureati ha il 75% delle probabilità di laurearsi a fronte del 12% di chi ha i genitori con la licenza media.
Va pensata, allora, una riforma del sistema di orientamento scolastico, con un’attività didattica che sia parte integrante del percorso educativo, per mettere ogni studente nelle condizioni di operare scelte consapevoli nell’ambito dei percorsi di studio e professionali, alla luce delle effettive propensioni e capacità e non in base alla situazione familiare di origine. In questo quadro, diventa prioritaria la valutazione e la riforma, da condividere con gli studenti, dei Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) al momento fallimentari e affatto funzionali all’inserimento nel mondo del lavoro di chi vi prende parte.
Soltanto pochi mesi fa, il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi si preoccupava che in Italia non ci sono più bambini. Eppure, nessuna analisi pubblica è stata fatta in merito a questi dati e a quanto ancora c’è da fare. È tempo di promuovere concretamente i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, attraverso l’impegno congiunto delle istituzioni, del mondo della ricerca e della comunicazione, del terzo settore, delle professioni, del mondo privato e, in primis, dei diretti protagonisti, i ragazzi e le ragazze.
Non possiamo permettere che, in questo momento storico così difficile, i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza subiscano un tale arretramento. È necessario un impegno straordinario per invertire la rotta, e occorre farlo subito.
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