Disastro Invalsi: è solo colpa della dad? La scuola si faccia qualche domanda

invalsiLo ha detto subito il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, quando la scorsa settimana ha presentato i risultati Invalsi al CNR di Roma: «Adesso tutti semplificheranno questi dati in una sola parola, la dad». E, in effetti, è andata più o meno così. Un po’ ovunque, sui quotidiani, è stato questo il commento alle disastrose prove che tanto hanno fatto discutere, negli anni, e ancora continuano a fare: la colpa è della didattica a distanza. È giusto? O, con onestà intellettuale, si può ammettere che si tratti di una banale semplificazione?

Abbiamo spesso criticato, su queste pagine, i limiti della dad, l’erronea convinzione che a tutti i problemi relativi all’impossibilità di svolgere la didattica in sicurezza bastasse rispondere con i collegamenti online, con interrogazioni, esercitazioni e spiegazioni dinanzi a una telecamera – perlopiù non sempre accessibile a chiunque – cancellando, di colpo, l’importanza del contatto umano, della lezione frontale, della scuola come luogo di aggregazione e “debutto” in società. Ciononostante, commetteremmo un grosso errore se adducessimo tutte le inefficienze del sistema scolastico italiano a questi due lunghi anni pandemici.

Da tempo – ben prima dell’arrivo del Covid-19 a stravolgere le nostre vite – la scuola, in Italia, presenta più di una problematica e non solo dal punto di vista strutturale. Gli ultimi risultati Invalsi, ad esempio, non prestano il fianco ad alcun alibi. Se nella scuola primaria la tenuta si è rivelata più o meno dignitosa rispetto al 2019 e con numeri più o meno simili in tutto il Paese, salvo un leggero incremento degli allievi che si trovano nei livelli più alti di risultato nei testi di lingua italiana, un calo medio nelle prove di matematica e soddisfacenti risultati nel reading di inglese – meno nel listening –, le valutazioni cambiano e drasticamente nella secondaria di I grado.

I dati relativi alla scuola media, infatti, ben differiscono da quelli precedenti: le competenze in italiano registrano ben 4 punti percentuali in meno, quelle in matematica 4.5. Ciò significa che quasi 5 studenti su 10 non raggiungono il livello minimo garantito. Tiene l’inglese. Ancora più tosta, però, è la situazione nella secondaria di II grado: in italiano si sono persi 9 punti percentuali (con il 44% degli studenti che non ha le competenze minime), altrettanti in matematica (per una percentuale del 51% degli studenti) e marcate differenze tra regioni.

Il Sud, in particolare, registra i numeri più allarmanti, soprattutto in Calabria, Puglia e Abruzzo, dove si raggiungono vette molto alte in termini di conoscenze insufficienti. Eppure, è proprio al Meridione che i diplomati con il massimo dei voti sono di più. Basti pensare che in Campania, dove il 64% degli studenti non raggiunge la soglia minima di competenze in italiano – percentuale che cresce addirittura al 73% guardando alla matematica – il Ministero dell’Istruzione segnala ben 2318 diplomi da 100 e lode sui 15353 totali. Nessun’altra regione ha fatto meglio in valori assoluti. Sempre in Campania cresce anche il tasso dei diplomati con 100. Se nel 2019/2020 era pari al 9.4%, nel 2020/2021 si è passati al 13.7%. Subito dopo, sul podio, la Puglia.

Nell’anno appena concluso – il dicastero di Bianchi prosegue – è stato ammesso alla Maturità il 96.2% dei frequentanti. I diplomati sono il 99.8% degli studenti che hanno sostenuto gli esami (99.5% nell’anno scolastico 2019/20) e quelli con lode il 3.1%, che corrisponde anche alla media campana, contro il 2.6% di un anno fa. Più di un diplomato su due ha ottenuto un voto superiore a 80. E non è necessario essere degli esperti in materia per comprendere la discrepanza tra i primi e i secondi dati: più di una riflessione, insomma, andrebbe fatta su metodi e valutazioni, su competenze e voto, sull’ennesimo divario Nord-Sud che non viene mai affrontato. Ma questa, forse, è un’analisi da posticipare, da rimandare a quando i dati di tutte le scuole e classi saranno finalmente resi pubblici, pur nell’anonimato di istituti e partecipanti.

Solo allora, il rapporto – che, al momento, presenta risultati aggregati per regioni che aiutano a fornire un quadro generale complessivo – potrà servire a fare una considerazione più attenta, anche sugli effetti che avrà avuto la dad sui nostri ragazzi e sulle cause che hanno portato a svariati e pericolosi passi indietro nella loro formazione. Intanto, è importante iniziare a interrogarsi, a tentare di capire perché – da tempo – le lacune che vengono a crearsi negli anni di studio finiscano il più delle volte per ingigantirsi anziché colmarsi. Perché è questa, a oggi, l’unica certezza: il divario si è acuito, tra regioni, tra tipologie di scuola, dunque tra licei e istituti tecnico-professionali, e persino all’interno delle stesse scuole.

Probabilmente, già nel futuro più prossimo potremo constatare quanto la didattica a distanza abbia pesato nella crescita personale e professionale di ciascun alunno, quanto abbia allontanato ragazzi e contesti già precari, quanto diritto alla studio abbia negato. Oggi, però, quel che dobbiamo fare – in vista di settembre e del Paese che vogliamo costruire – dobbiamo ammettere che il fallimento delle Invalsi è un fallimento affatto nuovo e/o inaspettato. Dobbiamo ammettere che le prove non sarebbero andate meglio in altri momenti storici, che al ribasso è l’intero sistema di istruzione su cui la politica e la società civile tutta hanno smesso di investire. Corpo docenti e famiglie, pure, devono interrogarsi. Nessuno è escluso, altrimenti i ragazzi – loro sì – finiremo per escluderli tutti: «Non giungiamo a sorpresa a questi dati. Avevamo già forti evidenze di differenze e disuguaglianze sia tra il Nord e il Sud, sia nei territori tra aree metropolitane e aree interne», ha commentato il Ministro Bianchi.

In tutte le regioni, infatti, gli studenti che registrano la maggiore perdita di competenze sono quelli che provengono da contesti economici e culturali più svantaggiati. Addirittura, si è riscontrato un divario tra ragazzi e ragazze, con le seconde che hanno perso ancor più terreno dei primi. Tra gli stessi più meritevoli, inoltre, in quei contesti cosiddetti difficili sono tanti coloro che sono rimasti indietro. Complice – qui, forse, davvero – la possibilità di accedere alla dad e agli strumenti necessari per seguire le lezioni e apprendere al meglio. Insomma, l’emergenza ha lasciato indietro i più fragili e rischia di farlo ancora.

A preoccupare, in tal senso, non è solo la prospettiva di un incremento dell’abbandono scolastico, già tra i livelli più alti in Europa, ma anche l’aumento di quegli studenti che vivono la scuola sulla linea di galleggiamento e che, dopo una conoscenza generale delle materie, non andranno mai – perché non potranno o vorranno – ad approfondirle. Si chiama, questa, dispersione implicita e riguarda già il 9.5% (7% nel 2019) degli scolari. Anche qui, tuttavia, è tristemente necessario fare un distinguo: 5% nelle regioni del Nord, intorno al 10% nelle regioni centrali, sopra il 20% al Sud (Puglia e Calabria). Al 23% si attesta, invece, la dispersione nazionale che comprende sia l’implicita che l’esplicita. Tra il 35 e il 40%, in Campania, Calabria e Sicilia.

I dati, insomma, non forniscono un quadro rassicurante, in particolare in alcune aree del Paese. Possono rappresentare, tuttavia, un punto di partenza, quello da cui cominciare per costruire il nuovo anno e quelli che verranno. Prima, però, bisogna chiedersi se c’è la volontà di farlo. E per quella non non basterà nessun green pass.

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