In Italia non si fanno figli: il calo demografico chiude le scuole, la politica non se ne accorge
Non solo Covid. Sono molti, in Italia, i numeri che non girano come dovrebbero. Dati che, di anno in anno, ridisegnano il volto del Paese presente e, soprattutto, futuro. Oggi, da ormai molti mesi, c’è la pandemia da Covid-19. Intorno a essa ruotano le nostre esistenze, le paure, persino le aspirazioni. Dalla famiglia alla scuola, dal lavoro al tempo libero, non c’è aspetto della sfera privata e pubblica di ognuno di noi che non sia condizionato dalle regole che limitano le libertà personali e dall’imprevedibilità di un virus che tuttora – al netto dei rapidi progressi scientifici – fatichiamo a controllare. E, così, non sorprende, purtroppo, leggere la conferma di un allarme lanciato molti anni or sono: in Italia non si fanno più figli.
I fiocchi colorati ad annunciare la lieta notizia sono in calo già dal 2008, anno con cui si identifica l’inizio della crisi economica che sta caratterizzando il nuovo millennio: nell’ultimo triennio, però, il totale dei neonati è sceso – per la prima volta dal 2015 – sotto il mezzo milione e non è mai parso voler risalire. La drastica riduzione di nascite nel Bel Paese, dunque, sembra ormai aver raggiunto caratteristiche strutturali ben definite, destinate a raccontare, ancora e a lungo, il futuro di un territorio che invecchia senza un vero ricambio generazionale. Le motivazioni, ovviamente, sono molteplici e riguardano l’intero Stivale. L’ultima, ma solo in ordine cronologico, è la pandemia, di cui l’Istat ha registrato i primi effetti nel suo rapporto relativo alla natalità del 2020.
L’Istituto Nazionale di Statistica calcola, infatti, che lo scorso anno i neonati sono stati appena 404mila. Nel 2021, invece, dovrebbero attestarsi tra le 380mila e le 390mila unità, in seguito al forte aumento dei decessi che ha toccato quota 746mila per un totale di 7 nascite ogni 13 morti per mille abitanti. Il Covid è, tuttavia, solo una delle spiegazioni cui ricorrere per definire le cause della crisi legata alla creazione di nuova vita nel Bel Paese. Come sappiamo, infatti, il tema è fortemente legato all’occupazione giovanile – femminile, in primis – e alla conseguente e progressiva riduzione delle potenziali madri, determinata innanzitutto dall’esaurirsi dell’età riproduttiva. In secondo luogo – e a essa correlato – l’accrescersi della povertà dovuto a una sempre più drastica diminuzione dell’offerta lavorativa sia in ambito strettamente occupazionale che remunerativo.
Le motivazioni che lasciano vuote le culle, quindi, sono da ricercarsi nell’indeterminatezza dell’era contemporanea, principale fonte di insicurezze che oscillano dal precariato alla disoccupazione, all’imprevedibilità di un futuro sempre più inimmaginabile, in primo luogo per le donne che ancora faticano ad avere riconoscimenti egualitari in termini di diritti e di salario, insomma di quelle pari opportunità tanto decantate quanto, nei fatti, sin troppo spesso inesistenti. Non molta differenza, invece, c’è nella scelta di ragazzi e ragazze di lasciare la famiglia di origine sempre più tardi, sperimentando, rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, percorsi di vita drasticamente frammentati che dislocano le tappe principali della loro indipendenza economica e familiare, spesso in luoghi diversi dai propri natali e fuori dai confini nazionali.
Per il dodicesimo anno consecutivo, dunque, la denatalità nello Stivale registra l’ennesimo record storico dall’Unità di Italia. Un dato che, dicevamo, non stupisce ma che spaventa se relazionato al rapporto nuovi nati-deceduti che, invece, aumenta il suo saldo negativo per un totale di 300mila persone in meno. Il fenomeno, ovviamente, ha forti ripercussioni anche sulla scuola. Meno bambini significa, infatti, meno studenti e meno studenti significa meno plessi scolastici. Solo negli ultimi cinque anni, il numero di alunni della scuola primaria è diminuito di oltre 200mila unità (-8%), con conseguenze soprattutto sulle piccole scuole. Gli istituti sono, oggi, circa 361 in meno, di cui 164 soltanto al Sud. Nel prossimo anno, invece, si stima che ne chiuderanno altri 22.
Il dato peggiore in termini di soppressione delle scuole si registra in Piemonte, che ha 70 plessi in meno. Seguono Campania (-62), Sicilia e Calabria (entrambe -51), Veneto (-28), Abruzzo (-27), Lombardia (-26) ed Emilia-Romagna (-20). Il dato migliore, invece, è quello ligure con due scuole in più. Dunque, se nell’anno scolastico 2015/2016 gli alunni della primaria erano 2 milioni e 584mila, almeno 200mila sono quelli che non ci saranno il prossimo settembre. A tal proposito, già si registra un netto calo delle iscrizioni e, quindi, del numero di classi che si andranno a formare, in particolare in Campania (17897 alunni in meno) e in Sicilia (quasi 14mila studenti in meno), regioni storicamente contrassegnate dall’abbandono scolastico prima e dall’emigrazione poi.
Insomma, i numeri parlano chiaro e denunciano una situazione drammatica, potenzialmente disastrosa, già in essere prima della pandemia, ma acuitasi con il suo manifestarsi. Il dibattito pubblico, tuttavia, sembra sempre concentrato su altro, ieri fossilizzato sui banchi con le rotelle, oggi su una campagna vaccinale che non è andata come annunciato. Le questioni da affrontare, invece, sono tante e ben più radicate. Troppe per nasconderle dietro una mascherina o per pensare di risolverle in dad.
Un Paese che fa sempre meno figli non può che essere un Paese che invecchia, di conseguenza una terra che muore. Il ricambio generazionale, allora, laddove i morti sono più dei neonati, diventa irrealistico con conseguenze per nulla sottostimabili, sia nell’analisi dell’oggi, perlopiù in termini economici – soprattutto in relazione ai costi che l’avanzare dell’età implica per le casse di uno Stato che non ha manovalanza nuova –, sia in prospettiva futura. La domanda sorge spontanea: quando la crisi sanitaria sarà finita, a cosa ci appelleremo per giustificare tanto disinteresse?
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