Riapertura scuole: sì, ma come?
È il tema delle ultime ore quello della riapertura delle scuole, tornato prepotente alla vigilia del cambio di colore per molte regioni. Le voci si susseguono senza sosta, si contrastano e smentiscono, ognuna si impone più forte dell’altra. Ad ascoltare, attoniti e spazientiti, famiglie e insegnanti. Eppure, del tanto parlare, l’unica certezza sembra che del tema, della scuola come cellula fondante della società, non interessi a nessuno.
Sono trascorsi otto mesi dall’inizio ufficiale della pandemia in Italia. Il problema degli istituti scolastici, invece, è nato molto prima e ora, che ignorarne i limiti non è più possibile, il sistema si sta sgretolando su se stesso. Non è un caso che le lezioni in aula siano state sospese a poche settimane dalla ripartenza e non è un caso che la didattica a distanza stia finendo per lasciare indietro tantissimi studenti, spesso delle fasce più basse della popolazione, che a difficoltà provano a stare al passo e il più delle volte senza riuscirci. Save The Children è soltanto l’ultima a lanciare l’appello.
Nel suo recente rapporto Con gli occhi delle bambine, la nota organizzazione umanitaria denuncia, infatti, la riduzione delle opportunità educative offerte nel nostro Paese cui si accompagna la sempre più consistente povertà economica. Un discorso che danneggia, su tutti, oltre un milione di individui che vivono in uno stato assoluto di indigenza. In particolare, sottolinea Save The Children, di pari passo allo smottamento demografico che ormai si registra ogni anno senza sosta, aumentano anche i numeri relativi alla dispersione scolastica e agli adolescenti che restano esclusi da qualsiasi percorso di natura formativa. Il risultato è una crescente – e rischiosa – povertà educativa cui la pandemia sta strizzando l’occhio senza che nessuno glielo impedisca.
Qualche dato a supporto della tesi: 1 studente su 4 al secondo anno delle superiori (24%) non raggiunge le competenze minime in matematica e in italiano, il 13.5% abbandona la scuola prima del tempo e più di 1 su 5 (22.2%) va a infoltire la schiera dei NEET, vale a dire di quei ragazzi che non studiano, non lavorano e non sono impegnati nella formazione professionale. Vien da sé, dunque, che le scuole vadano riaperte. Sì, ma come? Dal governo non fanno altro che ripeterci che si sta lavorando per questo obiettivo. La domanda sorge dunque spontanea: fino a oggi, che cosa è stato fatto? La risposta non incoraggia alla fiducia istituzionale e nemmeno l’ennesimo teatrino degli ultimi giorni messo su dal Ministero dell’Istruzione e quello dei Trasporti.
Mentre Azzolina ha chiesto di tornare in aula a dicembre, magari a ridosso delle vacanze natalizie, De Micheli ha proposto di riaprire gli istituti anche nel weekend – se necessario fino alle 20 – per evitare assembramenti sui mezzi pubblici. Nessuna delle due, però, ha avanzato una qualche forma di ipotesi concretamente risolutiva: la prima convinta della sicurezza mai comprovata degli istituti scolastici, la seconda esponendo le soltanto apparenti migliorie che il suo Ministero ha apportato al servizio di trasporto, come i 60 milioni da investire in due anni (2020-2021) e i 10mila mezzi in più messi a disposizione che, nella maggior parte dei casi – semmai dovessero vedersi nelle nostre strade –, rischieranno di rivelarsi sostitutivi dei vecchi e fatiscenti autobus di linea su cui viaggiamo quotidianamente. Non bastano.
Al pari della sua collega, anche De Micheli ha sottolineato che il contagio, nel settore di sua pertinenza, è praticamente ridotto all’osso (1%) e per farlo ha citato studi internazionali. Ma come possono analisi su larga scala rispondere delle specifiche criticità italiane? Sulla base di cosa, il Ministro ha fatto suoi questi dati, in un Paese sprovvisto di efficace sistema di tracciamento? Infine, quando entrambe propongono il fine settimana, i turni serali o l’imminente dicembre, hanno idea di cosa possa significare per famiglie e insegnanti? Questi ultimi sono mai stati interpellati? La scuola, nei discorsi di chi amministra la cosa pubblica, sembra un parcheggio, un luogo vuoto dove lasciare i ragazzi mentre i genitori sono alle prese con i regali di Natale, i docenti nei panni di baby sitter. È questo il messaggio che si vuole lanciare? È questa la nostra idea di istruzione?
Al momento in cui scriviamo, ciò che sembra più probabile è che la campanella tornerà a suonare dopo l’Epifania, così come su richiesta del Presidente del Consiglio che avrebbe assicurato ad Azzolina un rientro in sicurezza e nessun altro stop. Ovviamente, è difficile dire con certezza quanto e se avrà ragione. L’unica sensazione indiscussa è che da qui a gennaio, così come da marzo a settembre scorsi, non vi sono garanzie, per alunni e insegnanti, per l’incolumità loro e delle loro famiglie perché – lo ripetiamo – nulla è veramente cambiato. A mancare è ancora il rispetto dei più basilari diritti costituzionalmente riconosciuti: salute, istruzione, lavoro.
In fondo, il discorso non è dissimile da quello che facevamo per Vincenzo De Luca in Campania appena poche settimane fa, quando lo sceriffo preannunciava il suo repentino cambio di rotta e la riapertura a singhiozzi confermata anche nelle ultime ore. Su quale criterio ancora non ci è chiaro. Ciò che è chiaro è che la didattica in presenza a tutti i costi non è altro che propaganda. E la propaganda è la morte della politica. Del diritto come della verità.
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