Stop ai concorsi: il fallimento di Azzolina
Lo stop ai concorsi è finalmente arrivato. Tardivo, certo, ma più che necessario. Su queste pagine ne abbiamo parlato spesso e spesso abbiamo invitato le istituzioni alla riflessione, a prestare orecchio a chi chiedeva di aspettare, a chi – spaventato o impossibilitato – affidava le proprie speranze a una politica troppo egocentrica per ammettere l’errore. Invece, complice la scarsa capacità di confronto e una credibilità da difendere a tutti i costi, niente è parso smuovere i rappresentanti di palazzo. Niente ha convinto Lucia Azzolina a rivedere le proprie priorità. Per mesi, il refrain è stato sempre lo stesso: le scuole sono luoghi sicuri. I concorsi si faranno. Non ci sono motivi per fermarsi. E, invece, ce n’erano 30mila al giorno appena dietro l’angolo.
A nulla sono serviti gli appelli di aspiranti e sigle sindacali, tantomeno una spaccatura all’interno della maggioranza di governo: il Ministro ha proseguito per la sua strada incurante delle conseguenze, delle critiche come delle paure. Incurante persino del proprio fallimento. Così, a fermare le selezioni indette dal MIUR è stato l’ultimo DPCM, l’ennesimo atto ministeriale volto a riscrivere le nostre quotidianità, sancendo la sospensione, fino al 3 dicembre, dei concorsi pubblici e privati. Anche di quelli in corso.
Ma se per la procedura ordinaria poco o nulla cambierà, visto che le date non erano ancora state fissate, per quella straordinaria le cose cambiano notevolmente. Come sappiamo, il concorso volto all’immissione in ruolo di circa 32mila precari – su 64mila candidati – è iniziato lo scorso 22 ottobre e avrebbe dovuto concludersi il prossimo 16 novembre. Al momento, quindi, circa il 60% degli aspiranti ha già svolto le prime prove, per tutti gli altri andrà pensato un nuovo calendario. Vien da sé che il principio di equità tanto caro al Ministro che vi si è fatto scudo nelle settimane precedenti, in risposta a chi implorava a gran voce di fermare la macchina organizzativa, si è praticamente sgretolato su se stesso.
I test effettuati, infatti, verranno sottoposti alle commissioni di valutazione. Quelli ancora da fare, invece, avranno più tempo per essere preparati, con il rischio di generare, già nel futuro prossimo, ricorsi e malumori. Era proprio per scongiurare una simile ipotesi, in effetti, che nelle bozze precedenti si era paventata la possibilità di lasciar concludere le procedure in dirittura d’arrivo. Al contempo, suonava sin troppo rischioso ignorare la rapida ascesa della curva epidemiologica e continuare a esporre al contagio un gran numero di persone, tra aspiranti, commissari e personale vario, così com’è stato fatto sino a poche ore fa. La sospensione era la sola soluzione, ma a lasciare l’amaro in bocca è la consapevolezza che si sarebbe potuta evitare del tutto. Come? Semplicemente dando il via ai concorsi tra qualche mese, magari in primavera, sperando in una ripresa dello stato di salute del Paese.
Ecco che, allora, la testardaggine nel voler per forza procedere secondo i propri piani sta mostrando tutti i suoi limiti. Come potrà il Ministero assicurare massima trasparenza a un concorso iniziato, poi sospeso, poi ripreso? In che modo si garantirà lo stesso metro di giudizio nella valutazione delle prove? Quelle effettuate ieri avranno lo stesso valore di quelle di domani? Gli interrogativi sono tanti e affatto trascurabili, così come non è trascurabile il disagio causato a coloro che avevano prenotato viaggi e pernottamenti o chiesto permessi per svolgere gli esami, scoprendo in piena notte della sospensione delle selezioni, quindi di aver sprecato tempo e denaro. Quale rispetto hanno dimostrato loro le istituzioni? Nessuno. Ancora una volta.
Il fallimento del rientro in aula avrebbe dovuto fare da monito, quantomeno provocare un moto d’orgoglio, un tentativo – disperato – di riscatto. Eppure, le risposte erano sotto gli occhi di tutti. Di tutti, tranne del Ministero dell’Istruzione, tranne di Lucia Azzolina, il cui operato è tempo che venga messo in discussione. In fondo, nessuna delle strategie pensate finora dal MIUR si è rivelata efficace, costruttiva, capace di rispondere seriamente a un’emergenza ormai lunga otto mesi. Così, mentre l’Europa va in lockdown lasciando le scuole aperte, l’Italia si rifugia nella risposta più facile e – dati alla mano – meno inclusiva: dad, didattica a distanza. La sola alternativa a strutture inefficienti, trasporti inesistenti, screening ballerino. La sola replica a fondi elargiti e spesi male, molto male.
Non è certo una novità che l’istruzione, da noi, sia del tutto secondaria. Eppure, resta un assunto inaccettabile in un Paese che si definisce di diritto, in un Paese che – per Costituzione – deve offrire possibilità di formazione a tutti i suoi cittadini, anche in pandemia. Le istituzioni devono togliere la maschera, la politica interrogarsi e lasciarsi interrogare. Chi ha sbagliato deve fare un passo indietro, ammettere il fallimento, dimettersi. Perché non c’è tempo. Perché è ora e soltanto ora che si deve agire. Non domani, non poi, non a emergenza finita. Allora, potrebbe essere tardi o, peggio, non esserci una fine. Allora, potrebbe persino essere iniziata un’altra emergenza, sociale e culturale. E per quella non bastano lockdown o vaccini. Ma competenza.
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