Ai docenti non si fanno tamponi
Ai docenti non si fanno tamponi: si può riassumere così la questione che sta tenendo banco nelle scuole di Italia. Da Nord a Sud si segnalano inadempienze e ritardi, titubanze e, soprattutto, paura. Il coro è unanime e denuncia criticità inaccettabili che riguardano la tutela della salute. Così, se i dati sbandierati dal Ministero offrono un quadro rassicurante – ma precoce – per ciò che concerne la tenuta del comparto scolastico, le testimonianze di chi vive le classi ogni giorno smentiscono l’ottimismo e pretendono ascolto.
Per la maggiore, studenti e personale riferiscono del rifiuto da parte degli organi preposti a effettuare il tampone ai docenti di classi in cui è stato rilevato almeno un caso di positività. La motivazione più comune è che, in assenza di sintomatologia, non c’è necessità di ricorrere a controllo alcuno, come se gli enormi sforzi cui sono costretti quotidianamente gli insegnanti li fornisse di una sorta di immunità, di una capacità straordinaria di resistere al virus dietro la quale, spesso, si trincerano persino i dirigenti, ormai veri e propri manager. Anche in pandemia, la malata logica di tipo aziendale – su cui, in effetti, si sta da tempo modellando la scuola – si ripercuote violenta, confermando l’equazione lavoratore uguale schiavo, qualcuno di decisamente sacrificabile. Come se non bastasse, a confondere le acque pensano pure le ASL di riferimento.
Ne è un esempio l’Azienda Sanitaria Locale Napoli 1 (alleghiamo documento) che, definendo contatti stretti i compagni di classe, li pone in isolamento domiciliare con esecuzione del tampone non prima di 6 giorni dall’esposizione al positivo (fatto salva eventuale diversa decisione). Per il personale docente e non, invece, il discorso si complica: è cura dell’Unità Operativa di Prevenzione Collettiva valutare se i contatti dell’operatore scolastico sono da ritenersi stretti o occasionali e, quindi, disporre i consequenziali provvedimenti. Nella maggior parte dei casi, all’indagine – che non sempre c’è – non segue nessuna particolare restrizione. Il personale, sprovvisto di tutela, continua a lavorare nell’ansia del pericolo imminente. Ma come può una figura esterna catalogare con certezza il contatto o il rischio di contagio che intercorre una volta suonata la campanella? Che sicurezza viene garantita a chi lavora e a chi segue le lezioni? Perché non si procede subito con uno screening a tappeto?
A tal proposito, sono molte le storie di docenti e alunni che, per scongiurare il rischio di essersi contagiati, si scoprono costretti a rivolgersi a laboratori privati a spese proprie, tra l’altro a costi esosi – in media tra i 50 e 120 euro – affatto accessibili a tutti. Avallare l’ennesima vergognosa discriminazione di un Paese che vanta la presenza del sistema sanitario nazionale pubblico mentre lo nega è, per loro, l’unica soluzione. Eppure, tutto ciò di cui la scuola e l’Italia non necessitano, soprattutto adesso che gli esperti invitano alla massima cautela, è la benché minima forma di negligenza.
Sul sito del Ministero della Salute (aggiornamenti al 12/10/20) si legge che quando un alunno risulta positivo, il Dipartimento di Prevenzione, in collaborazione con il referente COVID – che fornisce l’elenco dei compagni di classe e degli insegnanti che lo hanno incontrato nelle 48 ore precedenti l’insorgenza dei sintomi –, avvia la ricerca dei contatti e le azioni di sanificazione straordinaria della struttura scolastica nella sua parte interessata. I contatti stretti individuati saranno poi posti in quarantena per 14 giorni dalla data dell’ultimo rapporto diretto con il caso confermato oppure in quarantena di 10 giorni dall’ultima esposizione con effettuazione al decimo giorno di test antigenico o molecolare. La chiusura della scuola o di parte della stessa dovrà essere valutata in base al numero di casi confermati, di eventuali cluster e del livello di circolazione del virus all’interno della comunità.
Per il rientro in aula, invece, bisognerà attendere la guarigione clinica che prevede l’effettuazione di un test molecolare dopo assenza di sintomi per almeno 3 giorni e il nulla osta da parte del medico. Gli alunni – precisa il Ministero – hanno una priorità nell’esecuzione dei test diagnostici. Per il personale, invece, non vi è menzione di alcuna precedenza. Perché? Risulta difficile, ai nostri occhi, trovare una spiegazione logica ed esaustiva a una tale omissione. Ogni docente o membro del personale scolastico è, considerando il quantitativo di persone che incrocia ogni giorno, un potenziale vettore. A sua volta, tutti i contatti sono, per lui, un costante, enorme pericolo. Inoltre, l’età media di chi insegna o comunque lavora all’interno degli istituti scolastici è perlopiù avanzata, quindi vulnerabile. Qual è, allora, la discriminante per la quale adottare misure e protocolli diversi?
Ancora una volta, l’Italia sembra pronta a sacrificare la sua classe operaia. Per questo, un intervento chiarificatore da parte degli organismi preposti appare quanto mai necessario e urgente. Fermarsi ai numeri di facciata senza tenere conto delle persone significa non garantire il diritto alla salute di ogni individuo, lavoratore o studente che sia. Significa mettere in discussione l’intero assetto che fa di un Paese un Paese civile.
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