Scongiurare la didattica a distanza: personale, strutture, trasporti subito
Nelle scorse ore, in attesa del DPCM arrivato nella notte tra il 12 e il 13 ottobre, si è discusso molto della possibilità di un ripristino della didattica a distanza per le scuole superiori. La soluzione è al momento congelata tuttavia, riportata al centro del dibattito da molti governatori, merita una riflessione attenta che vada ben oltre il facile titolo.
Soltanto pochi giorni fa, su queste pagine, riportavamo le dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, fiera, dopo l’incontro con l’Istituto Superiore di Sanità, dell’impatto residuale che la scuola sta avendo sull’aumento dei contagi: «Nelle prime due settimane, dal 14 settembre, il personale docente che risulta contagiato è lo 0.047%, il personale ATA è lo 0.059%, mentre gli studenti lo 0.021%». Numeri certamente rassicuranti che, tuttavia, riguardano un lasso di tempo fin troppo breve per poterne fare una stima tanto fiduciosa, comunque confermata dal Ministro della Salute Roberto Speranza e dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Le cose vanno abbastanza bene […]. Le condizioni di sicurezza nella scuola fin qui si stanno rivelando efficaci, non si crea generalmente nessun focolaio ma dobbiamo stare attenti a quello che c’è attorno alla scuola, prima e dopo la scuola. Faremo di tutto per proseguire in questa direzione. Per questo non ci sono i presupposti per prefigurare il ritorno alla didattica a distanza».
Nel nuovo DPCM, infatti, non se ne fa menzione alcuna, ma per qualcuno è soltanto questione di tempo: fondamentali saranno i dati raccolti nel futuro più prossimo. Il dottor Crisanti, ad esempio, sostiene che, stando all’andamento attuale della curva epidemiologica, il vero impatto del rientro in aula potrebbe essere visibile già tra poco meno di un mese. Inoltre, per capire se il virus si trasmette in queste comunità, sarebbe necessario un campionamento di massa su varie classi di alunni, tenendo conto che solo nella fascia fino ai sei anni gli asintomatici sono il 95%. Il rischio – denuncia il professore – è una grave sottostima che l’Italia e la scuola non possono permettersi.
A tal proposito, le testimonianze di chi vive la quotidianità scolastica devono fare da monito a una fiducia politica che, ogni giorno, si scontra con le evidenti incombenze dell’intero settore. Dai docenti alle famiglie il grido è univoco e invoca sicurezza. Da Nord a Sud – in particolare in quelle zone che denunciavano già ataviche carenze – le condizioni degli istituti scolastici sono rimaste sostanzialmente quelle di prima. I fondi stanziati, talvolta soltanto annunciati, non hanno risolto le innumerevoli criticità che già condizionavano il diritto allo studio prima della pandemia: molti interventi di edilizia scolastica non hanno ancora avuto luogo, i banchi promessi non sono arrivati – e quando e se lo faranno potrebbe essere troppo tardi –, le linee internet non sono state adeguate, le classi pollaio sono spesso rimaste tali. Il personale, docente o ATA, è tuttora in sottonumero. Soprattutto, il sistema di infrastrutture che ruota intorno alla scuola non è stato implementato o migliorato in alcun modo: dai trasporti alla sanità di prossimità, nulla è cambiato. Agli annunci sono seguiti troppi pochi fatti.
Eppure, dal Premier Conte al Ministro Azzolina, l’esortazione è sempre la stessa: attenzione al pre- e post-scuola. A cosa si riferiscono? Basta invitare alla responsabilità individuale quando quella istituzionale è ancora più grossa e grave? Si può garantire sicurezza a se stessi e agli altri quando, per raggiungere il proprio istituto, si è costretti a mezzi pubblici strapieni? Perché non si è pensato di incrementare i trasporti o di realizzare delle corse dedicate? Senza postazioni utili o spazi ampi, come si può pretendere il distanziamento? Con linee guida confuse e protocolli disattesi dalle autorità competenti, come si procede in caso di positività? Sprovvisti di test e tamponi, che fare?
Ecco che, allora, lo spettro della didattica a distanza non sembra più tanto tale e il suo ripristino così impossibile. Il Governo continua a smentire, ritenendo non necessario il ricorso a un modo diverso di fare lezione. Le Regioni (non tutte) chiedono supporto per migliorare i servizi o, in alternativa, la possibilità di ricorrere alla DAD per gli alunni degli ultimi anni delle superiori, riducendo i pendolari e, considerando l’età adeguata, i problemi per quelle famiglie che potrebbero recarsi al lavoro senza ulteriori complicazioni nell’assistenza ai figli. Il DPCM, però, non ne parla, ma sospende i viaggi d’istruzione, le iniziative di scambio o gemellaggio, le visite guidate e le uscite didattiche. Restano possibili le attività legate all’alternanza scuola-lavoro e all’orientamento.
La didattica a distanza è stata una misura emergenziale adottata nei primissimi mesi della crisi sanitaria in atto. Promossa come la soluzione più innovativa ed efficace, è ora fortemente contrastata dagli stessi fautori perché la scuola, dicono, deve restare aperta, è la priorità. E noi non potremmo essere più d’accordo. Eppure, la sensazione è che si stia palesando una scelta tristemente nota nel mondo del lavoro: in questo caso, tra il diritto allo studio e il diritto alla salute. Entrambi fin troppo spesso negati.
Sia chiaro, la risposta, per noi, non è la DAD, bocciata, tra l’altro, da uno studio presentato dalla CGIL in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio, la Sapienza di Roma e l’università di Teramo. I tempi analizzati vanno dal 3 aprile al 7 maggio e non lasciano dubbi: per circa due docenti su tre (64.7%) la mole di lavoro è aumentata in modo rilevante, con un carico maggiorato per le donne (+67%). Nel 62.5% dei casi sono state attivate delle iniziative di formazione per i docenti nell’acquisizione delle competenze necessarie, sebbene il 44.5% degli insegnanti di scuola primaria non ne abbia ricevuta alcuna. In quanto alle piattaforme, il 21.4% degli intervistati le ha definite inadeguate, il 57.5% abbastanza adeguate e il 21.1% del tutto adeguate. Il problema più grosso, invece, riguarda un altro aspetto: otto insegnanti su dieci (83.3%) hanno usato/usano un proprio dispositivo e meno di un professore su tre è riuscito a raggiungere l’intera classe con le lezioni da casa. La media si alza per i docenti dei licei, ma non per i colleghi degli istituti tecnici e per le scuole dell’infanzia.
Quello che Azzolina e il Governo, ai tempi, hanno annunciato come un successo si conferma, invece, un fallimento su più fronti. Il timore, se non si interviene subito, è che possa succedere lo stesso anche adesso ma con conseguenze maggiori, sanitarie e scolastiche, e l’inevitabile ritorno proprio alla – giustamente – tanto odiata DAD. Ma la didattica a distanza non è didattica. La scuola è presenza, è confronto, è mettersi alla prova, conoscersi, apprendere insieme, insegnare a occhi e orecchie attente. È spegnere i dispositivi e riaprire la mente.
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