ASL e proteste: qualcuno ascolti i ragazzi
È stato un mese di proteste e occupazioni quest’ultimo febbraio scolastico. Un mese di piazze zeppe di ragazzi, di ingiustificate cariche delle forze dell’ordine, silenzi e – peggio ancora – toppe a interrompere l’indifferenza della politica.
Dalla morte del giovane Lorenzo Parelli, avvenuta nel pomeriggio del 21 gennaio nel suo ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro a Lauzacco di Pavia (Udine), presso i cantieri della Burimec, a quella di Giuseppe Lenoci, scomparso la scorsa settimana in un incidente stradale durante uno stage in un’azienda termoidraulica, ragazzi di tutte le età e di ogni parte di Italia hanno scelto di ritrovarsi in piazza per manifestare contro i progetti di ASL – o PCTO che dir si voglia – perché non si può morire di scuola e perché non è certo questo il modello di formazione scolastica cui ambire in un Paese che non vanta un grado di istruzione sufficiente a posizionarlo tra i più avanzati d’Europa.
L’alternanza scuola-lavoro, in effetti, ha già ampiamente dimostrato tutti i suoi limiti di progetto fallimentare e affatto propedeutico al corretto inserimento nel mondo post-scolastico dei nostri studenti. E, oggi, con la pandemia che ha influito nel modo di (non) vivere l’aula, si conferma come affatto necessaria nei tempi e nelle modalità di realizzazione. Come sappiamo, l’ASL, nucleo centrale della riforma voluta dal Governo Renzi, è stata introdotta al fine di rimediare alla totale assenza di connessione tra il mondo dell’istruzione e quello dell’impiego. Tuttavia, si è trasformata presto in un’occasione per depennare dall’agenda ore destinate all’apprendimento di materie di ben più seria utilità e, per le aziende, di munirsi di manovalanza gratuita.
Come abbiamo già raccontato, negli anni sono stati tanti i casi di giovani impegnati a portare caffè, fare fotocopie, industriarsi in compiti che non avrebbero dovuto competere loro. E non sono pochi quanti hanno denunciato vere e proprie condizioni di lavoro non ammissibili in un sistema che, invece, dovrebbe garantire l’insegnamento di materie coerenti con il percorso di studi e una metodologia didattica formativa, piuttosto che una manodopera regalata dallo Stato a quei tanti che non intendono retribuire il personale di cui hanno bisogno.
Il numero di ore complessive di PCTO che ogni studente deve svolgere nei tre anni finali di scuola superiore varia a seconda del tipo di percorso frequentato: non inferiore a 210 ore negli istituti professionali, a 150 negli istituti tecnici e a 90 nei licei. Ore ridottesi del 30% negli ultimi due anni a causa del Covid o trasformatesi in attività online, che rendono ancora più inutile il sacrificio della didattica in presenza e finiscono con il non esaltare la valenza formativa dell’orientamento in itinere e svolgere un processo di formazione integrale della persona e del sé, come recita la definizione della scuola in alternanza, che nessun riscontro trova poi nella realtà.
È a queste condizioni che i ragazzi non vogliono più stare, stufi di non sentirsi mai individui con dei diritti da affermare, ma soltanto amebe da ottundere ancora dinanzi a uno schermo. Torino, Milano, Roma, Napoli, lo scenario è sempre lo stesso: studenti di diverse età si ritrovano in piazza a gridare il loro no allo sfruttamento, chiedono la sospensione di questa forma ibrida di istruzione e speculazione che ha assunto la scuola, della sua gestione sempre più aziendale e meno istituzionale. È questo – e nulla di più – che chiedono eppure, per le forze dell’ordine di Italia e per la nostra politica, non meritano ascolto.
Per giorni, nessuno, nonostante video e denunce social, è parso accorgersi delle violenze gratuite ai danni di giovani inermi: né il governo dei migliori né la stampa. Poi, dopo numerose sollecitazioni, qualcuno ha preso posizione. Parliamo, ad esempio, di Enrico Letta, Segretario del PD, che ha chiesto «che siano date risposte» perché «questa è una vicenda abbastanza grave». Un’interrogazione parlamentare è stata presentata da Sinistra Italiana per chiedere al Ministro dell’Interno di riferire in Aula, dal suo canto Luciana Lamorgese ha annunciato di aver «sensibilizzato i prefetti sulla linea da seguire, che non può che essere quella del confronto e dell’ascolto». La responsabile del Viminale ha anche aggiunto che «deve essere sempre garantito il diritto di manifestare e di esprimere il disagio sociale, compreso quello dei tanti giovani e degli studenti che legittimamente intendono far sentire la loro voce. Dobbiamo quindi operare per evitare nuovi disordini, scongiurando che le legittime proteste nelle nostre piazze possano essere strumentalizzate da chi intende alimentare violenze e attacchi contro le forze di polizia».
Ma è davvero questo – o soltanto questo – il punto? Basta deviare l’attenzione sulle solite infiltrazioni per giustificare la violenza? Perché per ogni manifestazione il discorso si esaurisce sempre lì, nella ricerca di un colpevole terzo? È un Paese che non impara mai, il nostro, che non cerca mai dialogo o ascolto, che ai giovani – di cui tanto si riempie la bocca – non presta la benché minima attenzione, non li coinvolge, non li supporta. Un Paese che pretende senza dare. Lo ha dimostrato, ancora una volta, il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi che, qualunque cosa accada, sembra non perdere mai la sua aria granitica, la sua inscalfibile sicurezza nel sostenere che la situazione è sotto controllo, che la nostra è la migliore scuola del mondo, che tutto funziona in un Paese dove, invece, niente funziona.
Eppure è del loro futuro che parliamo, del futuro di chi pagherà i debiti che stiamo contraendo più per la nostra sopravvivenza che per quella di chi verrà. È del futuro di questi ragazzi in piazza. E in piazza, con loro, dovremmo esserci tutti.
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